Roma, 17 dicembre 2017 - «Il treno dell’intelligenza artificiale è partito. E noi dobbiamo essere pronti a salirci al meglio. È una rivoluzione più decisiva e radicale di Internet, con un impatto da 18,3 miliardi di dollari a livello mondiale a fine 2017 e che nel 2025 oscillerà tra i 14 e i 33 triliardi. Questa è la sfida del Paese e delle sue imprese». Davide Casaleggio rifugge dal tempo presente («No, per favore, non perdiamo parole per le fake news dei mass media italiani») e punta dritto al cuore del futuro. E, alla domanda se avremo una società guidata dai robot, avvisa: «“Chiedersi se le macchine possano pensare è rilevante come chiedersi se i sottomarini possano nuotare”, diceva un informatico olandese dello scorso secolo, Edsger Dijkstra. Insomma, i robot non sostituiranno l’uomo. Anzi. Semmai conquisteranno qualche posto nei consigli di amministrazione».
Per quanto impossibile, proviamo a fermare l’attimo: oggi a che punto siamo?
«La grande quantità di dati disponibili, la capacità di sensori e sistemi di interpretazione della realtà, la possibilità di creare contratti che si eseguono automaticamente e la presenza di nuovi algoritmi cognitive permessi dalla nuova capacità elaborativa disponibile, ebbene, tutto questo ha creato un contesto in cui si può ipotizzare una nuova, lunga primavera per l’intelligenza artificiale».
Siamo oltre Internet o possiamo parlare di una nuova Internet?
«Molti ipotizzano una nuova rivoluzione tecnologica simile a quella di Internet, ma molto più importante dato che coinvolgerà anche il mondo fisico digitalizzato. L’obiettivo dell’impiego dell’Intelligenza artificiale non è il mero miglioramento dell’efficienza produttiva, bensì un’apertura verso nuove strade di generazione di valore. Entro la fine del prossimo anno tre quarti delle aziende includeranno funzioni di intelligenza artificiale in almeno un’applicazione aziendale ed entro il 2019 il 40% delle iniziative di digital transformation sarà supportato da capacità di intelligenza artificiale».
In quali funzioni sarà più immediato e pervasivo l’impatto?
«Pensiamo, in via più immediata, ai chatbot o ai robot umanoidi che permettono di rispondere alle domande del cliente in modo automatizzato. O alla possibilità di prevedere il motivo del contatto prima ancora di domandarglielo: tale da fornire la risposta ancor prima di ricevere la domanda. Pensiamo alla capacità della AI di permettere di configurare il prodotto su misura per il cliente. Fino alla selezione automatizzata del personale basata su algoritmi più o meno sofisticati».
Qualche caso di aziende che si sono mosse in anticipo?
«Beh, penso al supporto nelle decisioni strategiche. Come il caso della società di venture capital giapponese Deep Knowledge che ha assunto nel suo cda Vital, un oggetto di AI specializzato nel valutare i business nell’area delle terapie per malattie degli anziani, per adesso senza diritto di voto. Google, a sua volta, ha utilizzato il suo oggetto di intelligenza artificiale AlphaGo per ottimizzare i costi del suo fabbisogno energetico, con un risparmio di 20 milioni di dollari. Amazon ha acquistato Kiva per l’automazione del picking & packing in magazzino, passando da un tempo di 60-75 minuti, tra click e spedizione se gestito da umano, a 15 minuti. Anzi, le tecnologie previsionali hanno consentito sempre ad Amazon di creare un sistema di anticipatory shipping che sposta gli oggetti in anticipo prevedendo gli acquisti dei clienti, rendendo quindi la spedizione più veloce».
Gli algoritmi, però, sono anche sul banco degli imputati come fonte di sfruttamento e alienazione dei lavoratori: è necessario difendersi? E come?
«Nella maggior parte dei casi che abbiamo analizzato di utilizzo dell’intelligenza artificiale in azienda (www.casaleggio.it/b2b per un elenco completo) gli impatti sono stati positivi sia per la società in termini di produttività, sia per il lavoratore che riesce a focalizzarsi sulle attività a maggior valore aggiunto. Come in ogni rivoluzione industriale, però, devono essere definite nuove regole per governare i nuovi contesti. Per questo è importante comprenderla per anticiparla e non essere costretti a subirla».
Tecnologia, mai come in questo caso, va insieme con economia. Chi sono i meglio piazzati nella corsa verso l’AI?
«Gran parte di questa tecnologia è già disponibile tramite servizi in cloud offerti da società statunitensi. È necessario creare queste competenze anche a livello europeo e in Italia per non perdere un valore strategico per le aziende e per gli Stati che sarà il fondamento del vantaggio competitivo nei prossimi anni».
Quale è il mercato dell’intelligenza artificiale? Quali gli effetti economici?
«È uno dei mercati a più alta crescita perché si prevede che l’intelligenza artificiale possa far raddoppiare il tasso di crescita delle economie avanzate entro il 2035. In Italia si prevede che possa portare da 1% a 1,8% la crescita del valore lordo aggiunto annuale (una buona approssimazione del Pil). Anche sulla produttività del lavoro l’impatto sarà notevole: si stima un incremento fino al 40 per cento. Per l’Italia del 12%».
Quali sono le fragilità italiane che ci vedono indietro?
«Gli elementi su cui l’Italia deve ancora agire sono fondamentalmente l’infrastruttura tecnologica, il supporto legislativo all’innovazione e l’ecosistema del finanziamento pubblico e privato all’economia digitale».
Quale è il nostro ritardo nel venture capital?
«È rilevantissimo. L’ecosistema italiano di venture capital è ai livelli di un quinto della Spagna e di un quarantesimo della Gran Bretagna. In Paesi come Gran Bretagna, Germania e Francia le imprese del settore ricevono investimenti nell’ordine delle centinaia di milioni di euro, in Italia raramente si superano i 5 milioni».
In definitiva, l’intelligenza artificiale comporterà più rischi o più opportunità per noi?
«Dovremo saper approfittare di questa quarta rivoluzione industriale, prevedendola e anticipandola a nostro favore. Ad esempio lo scorso anno Adidas ha cominciato a riportare la produzione delle scarpe dalla Cina in Germania grazie a un sistema di produzione meno costoso dei salari cinesi. Il processo del reshoring attraverso l’innovazione tecnologica è uno dei tanti esempi su cui anche l’Italia deve puntare: si crea nuovo valore per le imprese e nuova occupazione, anche nell’indotto».