Roma, 27 febbraio 2020 - La semplificazione temporanea dello smart working nelle regioni del Nord coinvolte dall’emergenza coronavirus potrebbe fare da prova generale per un intervento più strutturale che faccia decollare la formula anche in Italia. E, se nelle grandi aziende private la soluzione del lavoro "agile" (con gli smartworker che lavorano da casa o da dove vogliono, ma fuori dall’ufficio) è praticata in parte da già da qualche anno, a dare la spinta nel settore pubblico potrebbe essere l’intenzione del Ministro della Pubblica amministrazione, Fabiana Dadone, che, oltre alla direttiva per le aree a rischio del Settentrione, ha annunciato una vera rivoluzione per la diffusione dello strumento, oltre che di altre forme di flessibilità lavorativa, tra i dipendenti pubblici. Una prospettiva che, mettendo nel conto anche i lavoratori privati, potrebbe riguardare nel nostro Paese circa 8,3 milioni di addetti, secondo le stime della Fondazione Studi dei Consulenti del Lavoro.
Ma partiamo dal decreto per l’emergenza e dai provvedimenti attuativi: ebbene, vi si prevede la possibilità per le aziende di sei regioni italiane (Lombardia, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Piemonte, Veneto e Liguria) di far lavorare i propri dipendenti in modalità smart working senza un accordo preventivo (previsto dalla legge sul lavoro "agile" del 2017) fino al 15 marzo in modo da evitare la diffusione del contagio. La richiesta può arrivare anche dal lavoratore delle zone interessate all’azienda che però può rifiutarsi per "motivate ragioni organizzative".
La novità emergenziale, però, ha fatto riscoprire una soluzione che potrebbe rivelarsi utile anche in maniera più strutturale: lo ha sottolineato in questi giorni il "padre" del provvedimento, Maurizio Del Conte, primo presidente dell’Anpal, tornato in Bocconi qualche mese fa. E lo rammenta Emmanuele Massagli, Presidente di Adapt (il centro studi fondato da Marco Biagi): "La speranza è che questa situazione diventi una occasione per comprendere meglio come modificare la legge del 2017 perché sia più adeguata a regolare le tante modalità di lavoro a distanza che la tecnologia attuale rende facilmente praticabili, come dimostrato dalle tante aziende che in poche ore hanno chiesto ai loro dipendenti di lavorare da casa".
Ma quanto è diffuso lo smart working in Italia? A offrire l’ultima radiografia aggiornata è il Rapporto dell’Osservatorio specifico del Politecnico di Milano: gli smart worker sono ormai circa 570mila, con una crescita del 20% rispetto al 2018. Lo scorso anno la percentuale di grandi imprese che ha avviato al suo interno progetti di smart working è del 58%, con un 7% di imprese che ha già attivato iniziative informali e un 5% che prevede di farlo nei prossimi dodici mesi. La diffusione dello strumento resta, al contrario, più limitata tra le piccole e medie imprese (siamo al 12 per cento) e nelle pubbliche amministrazioni, che però vedono un incremento significativo negli ultimi dodici mesi, dall’8 al 16 per cento. Nel complesso, però, secondo i dati Eurostat 2018 ripresi in uno studio dei Consulenti del lavoro, siamo ben lontani dagli altri Paesi europei: il 2% in Italia (pari a 354mila occupati) contro l’11,6 dell’Europa, mentre nel Nord Europa si supera in alcuni casi (Svezia e Olanda) il 30.
C’è, insomma, ampio spazio per crescere: i lavoratori occupabili in smart working (manager e quadri, professionisti, tecnici e impiegati d’ufficio) sono, secondo i Consulenti del lavoro, 8 milioni 359 mila. Se a un terzo di questi fosse concessa la possibilità di lavorare in modalità "agile", si raggiungerebbero i 2 milioni 758 mila. E non a caso Mariano Corso, responsabile dell’Osservatorio del Politecnico, osserva: "Lo smart working non è solo una moda, è un cambiamento che risponde alle esigenze delle persone, delle organizzazioni e della società nel suo complesso, e come tale è un fenomeno inarrestabile".