Roma, 6 giugno 2020 - Professor Barbagli, la riapertura delle attività economiche e sociali è "a ranghi ridotti". I numeri e i fatturati di negozi, ristoranti, trasporti, sono al lumicino. Abbiamo ancora paura di uscire? "Sì, c’è ancora paura di uscire, di spendere, di consumare. Ma tutto questo non sorprende e le cause sono intuibili – spiega Marzio Barbagli, sociologo, professore universitario emerito a Bologna, da decenni con le antenne accese sulla società italiana –. Siamo stati martellati, giustamente o no non è questo il punto, da comunicazioni e notizie, spesso incerte e contraddittorie, riguardanti l’emergenza Coronavirus e i rischi che, ancora secondo gli esperti, corriamo. Ci hanno ripetuto per mesi che dovevamo mantenere la distanza e rimanere a casa. E, dunque, si fa fatica a venire fuori da questo clima, tanto più che ascoltiamo che i nuovi casi sono in diminuzione ma esistono. Ma non è solo il timore ‘sanitario’ a incidere".
Che altro ci spaventa e ci tiene frenati? "La seconda componente della paura è l’incertezza sul futuro: gli esperti e anche il governo ci dicono continuamente che andiamo incontro alla peggior crisi economica e sociale dal Dopoguerra. Questo paralizza".
Si può misurare la paura? Si possono stimare i suoi effetti? "Non esistono, almeno per ora, dati che consentano di misurare la paura. La rileviamo però dai comportamenti: andare al ristorante, utilizzare mezzi pubblici, spendere per consumi. In generale la paura corrisponde alle condizioni oggettive. E come tutte le paure varia a seconda dell’età: le persone più anziane hanno più paura perché sanno di essere più a rischio. E infatti esitano a riprendere le vecchie abitudini, mentre si è registrata la tendenza dei giovani a fare l’opposto, proprio perché sanno che corrono pochi rischi".
C’è chi sostiene che ci sia stato un eccesso di lockdown, soprattutto nel senso del martellamento della comunicazione: il bollettino quotidiano, le conferenze stampa della Protezione civile e del premier, i cento virologi in tv a tutte le ore. "Ci sono e c’erano in campo due esigenze fondamentali, rappresentate da gruppi con interessi differenti: tutelare la salute e quindi correre meno rischi possibili, da un lato, e, dall’altro, fare in modo che l’economia non tracollasse. È difficile valutare se ci sia stato un eccesso. È certo, però, che i messaggi sono arrivati a ritmo ossessionante. Ma la cosa forse più preoccupante è stata e rimane l’incertezza delle previsioni, sia di quelle riguardanti la pandemia sia di quelle economiche. La popolazione sente questa incertezza, anche di gestione, come nel caso della scuola. Il cittadino comune è in una situazione di incertezza e di conseguenza agisce in modo sempre più cauto".
Insomma, scontiamo «anche» una comunicazione martellante ma anche poco chiara. "Gli esperti non solo non sono riusciti e non riescono a fare previsioni univoche ma neanche a dare certezze, poiché si muovono in un settore nuovo e inesplorato. Quindi non solo il martellare dei dati quotidiani sulla pandemia, ma anche l’incertezza oggettiva che i cittadini percepiscono: tutto questo non poteva non lasciare un segno sui comportamenti anche di questa fase".
Quando torneremo a una relativa normalità di comportamenti? "Se riusciamo a superare senza nuove crisi l’inverno, quindi tra molti mesi, allora potremo tornare alla normalità. Con l’estate la popolazione comincerà lentamente a riprendere le attività. Ma non immagino folle che vadano al ristorante. Solo la prossima primavera potremo davvero riprendere a vivere con normalità".
Le conseguenze dell’incertezza, però, si stanno ribaltando sull’economia che è ancora bloccata. Il rischio è che la paura si mischi con la rabbia di chi non riesce a farcela. "Il governo negli ultimi mesi ha annunciato ripetutamente misure che però non corrispondono se non in minima parte a realizzazioni effettive. Ma gli annunci alimentano comunque le aspettative della gente e continui confronti tra i gruppi. La rabbia nasce dalle difficoltà economiche, ma si alimenta anche dai confronti tra gruppi sociali che percepiscono di essere più trascurati di altri o di ricevere meno di altri: da qui il risentimento".