Roma, 26 gennaio 2025 – Le comunità del cibo come “strumento per aiutare la conservazione delle antiche varietà agricole, recuperate e iscritte all’anagrafe nazionale della biodiversità, con agricoltori custodi che le producono”.
Ecco la premessa di Graziano Rossi, presidente del corso di laurea in Agri-Food Sustainability all’università di Pavia, impegnato nella salvaguardia dei grani antichi. Che passano anche da questo strumento.
Cosa sono le comunità del cibo
Il 29 gennaio il professore illustrerà in un webinar promosso con la Regione Emilia Romagna proprio questa nuova realtà che sta prendendo piede da Nord a Sud, dal Veneto alla Toscana, dalla Liguria alla Basilicata. “Mais locali dell’Emilia Romagna”, il titolo dell’iniziativa, con un riferimento a uno degli ultimi impegni del professore, la certificazione del mais rosso di Rasora, borgata sull’Appennino bolognese.
“Il territorio interessato dalle comunità del cibo - chiarisce Rossi - ha una sua omogeneità, e quindi quello strumento in qualche modo diventa una via per caratterizzarlo e per pubblicizzarlo con i suoi prodotti che non sono i più conosciuti ma sono se vogliamo poveri, nessuno andrebbe a cercarli e ad acquistarli. Quindi la comunità del cibo è una sorta di alleanza prima di tutto con gli agricoltori custodi, sono loro che mantengono queste varietà”. Ma non basta, suggerisce Rossi, il mercato fai da te. “Se si vuole effettivamente essere efficaci e anche solo mantenere vivo l’interesse ci vuole un’organizzazione”, rimarca il docente.
Dove sono più sviluppate le comunità
Le comunità del cibo sono sviluppate in particolare in Toscana – tra le regioni sicuramente partite prima - ma anche in Basilicata, ad esempio nel Parco nazionale del Pollino, e in Veneto. Possono essere istituite ma poi, è la domanda cruciale, chi le governa? “Questo strumento deve essere in qualche modo finanziato dall’ente pubblico - ragiona Rossi -. Lo ha fatto sicuramente la Toscana, che ci ha investito molto”.
Prodotti poveri ma di grande qualità
Prendiamo “la farina del mais rosso di Rasora, sull’Appennino bolognese - porta ad esempio Rossi -. Da sola non potrebbe avere attenzione a livello regionale o nazionale. Se si vuole arrivare a un business territoriale, qualcuno se ne deve occupare. Pensare che possa farlo solo l’agricoltore con la sua filiera fai da te è dura”. Quindi piccoli ma “soprattutto organizzati con un lavoro di squadra. L’obiettivo finale non è solo quello di vendere mais o fagioli ma di valorizzare un territorio, magari spopolato, senza quasi più agricoltura. C’è bisogno di richiamare l’attenzione”. Lo slogan: “Se mi mangi mi conservi”.
Dai fagioli alle melanzane: prodotti in vetrina
“Ci sono prodotti potenti – ricorda Rossi -. In Veneto, ad esempio, c’è una comunità del cibo nelle Dolomiti bellunesi, che sono parco nazionale. I fagioli borlotti Lamon sono tra i migliori. Nel Pollino hanno una melanzana tonda rossa. Loro hanno cominciato facendo la registrazione e sono arrivati anche a prodotti Dop, cosa ‘pesantissima’, che richiede ad esempio un disciplinare di coltivazione. Alla fine tutto questo diventa un volano di possibile sviluppo del territorio. Vai a valorizzare prodotti che non hanno la forza di per sé per essere sponsorizzati. Un po’ quello che ha fatto Slow Food, riempiendo un vuoto lasciato dallo Stato”.