DIGITALIZZAZIONE e sostenibilità. Sono i due driver che secondo Giuseppe Di Taranto – professore emerito della Luiss, insegna Storia dell’economia e dell’impresa – devono guidare la ristrutturazione delle aziende italiane. Pena rimanere fanalino di coda della competitività europea. E non solo.
Professore, dall’analisi di Boston Consulting emerge che, tra le aziende che hanno mostrato difficoltà, circa un terzo è stato in grado di completare la propria ristrutturazione con un miglioramento delle performance. Una quota bassa secondo lei?
«Si può fare di meglio, ma non nelle condizioni in cui versa l’economia italiana, che è in recessione. Ristrutturare in tempi di congiuntura economica favorevole è più facile».
L’Italia non brilla per competitività delle sue aziende, ad eccezione di alcune eccellenze. Perché?
«Dagli anni ’90 in poi la competitività delle aziende italiane ha iniziato ad essere un problema. Poi, è arrivata la crisi che ci ha colpito più duramente di altri: dal 2008 abbiamo perso un quarto della produzione industriale. Non solo, dal 2012 al 2014 abbiamo perso oltre 600 aziende che sono state comprate da mani straniere. Da notare che queste aziende non hanno cambiato mai nome del brand, perché il made in Italy è un valore».
Un valore che spesso non riusciamo a trattenere. Quali sono le leve per uscire più forti da una ristrutturazione aziendale?
«Le due leve principali sono la sostenibilità e la digitalizzazione che incidono sulla competitività delle aziende. In generale, è necessario accelerare sulla modernizzazione delle imprese che stanno subendo la concorrenza della Cina: prima era considerata la fabbrica d’Europa ma ora è all’avanguardia nella produzione altamente tecnologica. Sotto questo aspetto, noi stiamo diventando sempre meno competitivi».
Lo studio di Boston Consulting esamina aziende con oltre 500 milioni di fatturato, ma ad essere in difficoltà sono soprattutto le piccole...
«Piccolo è bello si diceva all’inizio della globalizzazione, ma è sbagliato. Bisogna internazionalizzarsi e aumentare le dimensioni. Anche perché in Italia la tassazione è inversamente proporzionale rispetto all’ampiezza dell’impresa: più è grande meno paga di tasse. Questo va corretto. Il tax rate è del 64%, questo significa che un imprenditore lavora due terzi dell’anno per pagare le tasse, mentre siamo al quinto posto in Europa per cuneo fiscale. È evidente che bisogna fare qualcosa. Ma c’è un altro tema».
Quale?
«Riguarda l’Europa: c’è una moneta unica e sistemi fiscali diversi negli Stati. È normale che le aziende delocalizzino nei Paesi a fiscalità più conveniente. Molti utilizzano le cosiddette svalutazioni interne, cioè riducono i salari: questo però porta meno consumi e nuovi blocchi allo sviluppo del Paese».
Gli ultimi dati Istat mostrano un aumento esponenziale della cassa integrazione: è diventato una sorta di metadone per aziende ormai decotte? Quali strumenti alternativi?
«La cassa integrazione è una conseguenza delle mancate ristrutturazioni. Altri strumenti non ne abbiamo, l’impresa prima fa la cassa e poi chiude. Tuttavia, è un importante ammortizzatore sociale. Il punto è prevenire».
Da anni si dice che in Italia manca una politica industriale in grado di orientare lo sviluppo del Paese.
«Manca anche perché le regole dell’Unione europea impongono il mercato libero concorrenziale, cioè escludono l’intervento dello Stato. Allora bisogna incidere sulla fiscalità, che è una politica industriale diretta: ridurre le tasse sulle imprese significa recuperare competitività sui mercati internazionali».
Quanto pesa il management non all’altezza in Italia?
«Pesa moltissimo. I manager dovrebbero essere retribuiti in base ai risultati».
Alessia Gozzi