Roma, 19 agosto 2015 - Dopo tre decenni di crescita stellare, a doppia cifra, la locomotiva cinese rallenta e ora si parla di 'sindrome cinese' sui mercati. Questa è stata decisamente un'estate nera per il Dragone, che rischia seriamente di non raggiungere l'obiettivo del +7% del Pil a fine anno, ben lontano dai grandi numeri del passato, ma ora considerato un target più che auspicabile per le autorità di Pechino.
C'è perfino chi sostiene che che quest'anno l'economia cinese non crescerà oltre il 3-4%, sebbene, rumour a parte, le statistiche ufficiali continuino a puntare senza tentennamenti sull'obiettivo del +7%. I ripetuti crolli della borsa di Shanghai, il deprezzamento dello yuan, lo sgonfiamento della bolla immobiliare, lo scivolone dell'8,3% dell'export a luglio, la discesa ai minimi da sei anni dell'attività manifatturiera ad agosto, sono avvisaglie di un'economia che appare sempre più inceppata, appesantita, frenata.
DA SALVEZZA A PROBLEMA - La Cina, vista come il motore della crescita mondiale solo fino a pochi mesi fa, dall'inizio dell'estate sta diventando un problema e rischia di non fare più da traino, innescando crisi a catena nelle vicine economie asiatiche, alimentando fughe di capitali dai paesi emergenti e mettendo in forse perfino la crescita Usa, come dimostrano i dubbi della Fed, che adesso frena sul rialzo dei tassi a settembre, intimorita dalla frenata del made in China e dai suoi effetti collaterali.
D'altra parte i numeri parlano chiaro: il made in China ha smesso di correre e questo è diventato un problema per tutti. Nel 2008-09, nonostante la crisi della finanza mondiale, il Pil cinese era cresciuto intorno al 9,5%, nel 2010 e nel 2011 ha accelerato a +10%, poi ha iniziato a perdere colpi: +7,8% nel 2012, +7,7% nel 2013 e +7,4% l'anno scorso, il livello più basso da 24 anni a questa parte.
Pechino, che è arrivata a produrre un quarto della ricchezza mondiale, ora, con il suo rallentamento rischia mettere una seria ipoteca sulla ripresa globale, come sta già accadendo con i prezzi delle commodity, azzoppati dal calo della domanda di materie prime da parte delle industrie cinesi.
Dietro il malessere del Dragone c'è un problema irrisolto: il passaggio, più volte annunciato ma ancora largamente incompleto da un'economia trainata dall'export a un'economia più legata ai consumi interni. Si tratta di un processo lento, complesso, difficile, ma anche inevitabile. Cambiare modello di sviluppo non è uno scherzo, figuriamoci per un paese immenso e con un miliardo e mezzo di abitanti come la Cina. Pechino vuole smettere di dipendere dalla congiuntura internazionale per la sua crescita e per questo ha messo in cantiere una mole imponente di riforme, ancora in larga misura da realizzare.
In attesa che questo processo decolli, la Cina deve fare i conti con una ripresa globale incerta, un indebitamento crescente e un'economia che non viaggia più col vento in poppa, anzi zoppica vistosamente. Il paese continua ad attrarre investimenti esteri e può contare su una montagna di riserve valutarie, accumulate negli anni delle vacche grasse. Tuttavia i problemi si stanno aggrovigliando e per Pechino non sarà per niente facile districarsi. Il vero motore dell'economia cinese restano gli investimenti, in larga parte pubblici, che pesano ogni anno per il 52% del Pil.
NODO INVESTIMENTI - In pratica gli investimenti in Cina hanno lo stesso ruolo di traino dell'economia che hanno i consumi in Europa, negli Usa e in Giappone. Nei primi sette mesi del 2015 gli investimenti fissi cinesi sono cresciuti ai minimi dal 2000, soprattutto a causa della crisi del settore immobiliare. La foto di questa crisi è evidenziata dal fatto che il 20% delle nuove case costruite in Cina sono rimaste invendute, con inevitabili ripercussioni negative sulle vendite immobiliari, in declino da 13 mesi consecutivi. Risultato: la produzione di cemento e acciaio è stagnante. L'occupazione ha registrato la prima contrazione dal 2012 a luglio (dati del Financial Times), nonostante gli stimoli introdotti dal governo per rafforzare le infrastrutture. Lo stessa commissione per lo sviluppo e le riforme, la prima agenzia di pianificazione del paese, ammette di quest'anno gli investimenti subiranno "pressioni al ribasso", soprattutto per problemi legati ai finanziamenti.
INCOGNITA CONSUMI - Altro dilemma sono i consumi. La classe media cinese è molto cresciuta in questi anni, ha conosciuto un vero e proprio boom, ma la middle class del Dragone è ancora composta da meno di un decimo della popolazione totale. Il sistema di welfare, malgrado 60 anni di regime comunista, è largamente deficitario. Il governo vorrebbe invertire questi trend, ma sono un processi di lungo corso. Nel frattempo, mentre l'export e il settore manifatturiero mostrano la corda, sul fronte dei consumi le cose non vanno meglio.
Quest'anno, per la prima volta, le vendite di smartphone in Cina hanno registrato un calo e quelle di auto a giugno mostrano un preoccupante -3,4% annuale, il primo segnale di declino da 2013. A luglio le vendite al dettaglio hanno registrato un +10,5%, percentuale da urlo ma non per la Cina, dove viene archiviata come la crescita più bassa da un decennio a questa parte. Insomma, la 'locomotiva' cinese non sfreccia più, ma arranca, cigola, sbuffa e la 'sindrome cinese' inizia ora di contagiare pesantemente i mercati internazionali.