Lunedì 23 Dicembre 2024
SALVATORE MANNINO
Economia

Banca Etruria, dall’oro al piombo

Un crollo lungo dieci anni. Investimenti sbagliati e 400 milioni in fumo

Banca Etruria

Arezzo, 13 dicembre 2015 - C’ERA una volta... Sì, questa brutta storia di provincia potrebbe cominciare come una favola, ma senza lieto fine per 62mila soci e quasi 5mila obbligazionisti rimasti col cerino in mano. C’era una volta la banca gioiello (quasi) di una capitale del benessere. Si chiamava appunto Banca Etruria, ma era conosciuta anche come la banca dell’oro perché, avendo sede nel distretto dei gioielli più importante d’Italia, era la principale negoziatrice di lingotti e affini. Nel 2004 il titolo valeva in Borsa la bellezza di 18 euro. E ancora nel 2007 il bilancio si chiudeva con un utile di 48 milioni. Intanto, Arezzo viveva (bene) intorno alla sua banca: fra la fine degli anni ’90 e i primi anni 2000 era sempre nei primi dieci posti delle classifiche sulla qualità della vita.

LA QUIETE prima della tempesta, appunto. L’ultima quotazione a piazza Affari, prima della sospensione per il commissariamento di febbraio, è stata di 0,58 euro, con un depauperamento del 96%. L’ultimo bilancio in deficit di oltre mezzo miliardo. I crediti deteriorati hanno raggiunto i due miliardi e 700 milioni. Dopo il decreto del 22 novembre gli aretini si sono risvegliati più poveri di almeno cento milioni, anche se l’azzeramento di azioni e subordinate vale per il complesso degli investitori tra i 370 e i 400 milioni. La città è disorientata e impaurita. Nelle filiali di Bpel molti fanno la fila per ritirare i risparmi (ma secondo la Nuova Banca, il calo è stato in realtà del 2%), persino lo shopping natalizio ne risente: i negozi di giocattoli denunciano un calo del 20%. Ma com’è che Banca Etruria è andata all’inferno in dieci anni? Le prime avvisaglie (sottovalutate) sono del bilancio 2009, quando emergono i crediti deteriorati del 2005-2008. Risalgono, dunque, ancora all’era di Elio Faralli, il padre padrone, laico e massone dichiarato, per quasi un trentennio dal 1980 al 2009. È lui che prende il timone di una banchetta di provincia e la guida a un’espansione progressiva che assorbe le piccole popolari di Marche, Umbria e Toscana, fino a diventare la prima Popolare sotto la linea Gotica.

NEI primi anni ’90 arriverà il colpo più grosso, l’incorporamento della Popolare dell’Alto Lazio, feudo andreottiano, operazione sponsorizzata personalmente dal Divo Giulio. Faralli, intanto, fa carriera: diventa presidente dell’Assopopolari e vicepresidente dell’Abi. Si avvicina insomma ai salotti buoni, per essere accettata nei quali, Bpel si lancia nelle prime operazioni azzardate, poi perdite sonore. Nell’ultimo periodo, dal 2005 in avanti, l’antico nocchiero cede piano piano potere a una nuova maggioranza cattolica, che si raggruma attorno a Giuseppe Fornasari, ex sottosegretario Dc all’industria, già figlioccio di Fanfani. Nel 2009 il golpe: Faralli viene defenestrato, gli succede appunto Fornasari. Siamo in piena crisi economica, i prestiti di manica larga, anche sul territorio, diventano sofferenze man mano che le aziende locali cadono sul terreno. I crediti deteriorati esplodono, interviene Banca d’Italia, prima con le ispezioni, poi con l’imposizione (dicembre 2012) di un partner di «elevato standing» che non si troverà mai. Anche Fornasari è costretto da via Nazionale a mollare, sostituito dal suo ultimo numero 2 Lorenzo Rosi. Tra i vice (ma non è il vicario) Pierluigi Boschi, padre del ministro. Chi sta dentro le segrete cose dice che non fosse un timoniere, ma nell’immaginario collettivo diventa in ultimo la banca dei Boschi. Gli aretini assistono scettici e disorientati. Anche alle mega-cifre che emergono sulle sofferenze: 60 milioni con l’Acqua Marcia di Caltagirone, dai 45 ai 70 con la Sacci (cemento), 20 per il mega-yacht di Civitavecchia, destinato a un improbabile sceicco e mai finito, 25 persino nella clinica Sanatrix di Pescara, coinvolta nella Sanitopoli abruzzese. Un vero maelstrom che ha inghiottito la vecchia Bpel.