Ventimiglia (Imperia), 21 settembre 2023 – Niente di nuovo sul fronte occidentale. Fra Ventimiglia e Mentone – in questo fronte di silenziosa guerra mai dichiarata, fra montagne con il cappello di nuvole inquiete e un mare che pare piallato ed è grigio come il cielo – ancora una volta s’impantana, s’insabbia, affonda, il senso di un’Europa comune, fondata da comuni diritti e doveri. Liberté, egalité e fraternité si fermano davanti al cartello blu e le stelle d’oro con su scritto Francia. Si fermano e rimbalzano indietro fino alla stazione ferroviaria di Ventimiglia, ultima fermata possibile per un cumulo di disperati e di disperazione che circonda e avvolge una piazzetta rettangolare che sarebbe anche carina, con palazzine rosa dal retrogusto decadente, ma che, di fatto, è l’ultima stazione non di treni, ma di una via crucis.
È la nostra Ellis Island, e noi siamo sempre dalla solita parte: quella dei disperati che cercano un nuovo mondo, sognano una Terra Promessa, un nuovo inizio. E, ora come allora, la certezza è il luogo da dove si cerca di scappare perché, in fondo, qui non s’intravede un futuro: povera Italia, negletta e rifiutata. E povera Europa, ché non è affatto popolo ma divisa e derisa mentre, qui e ora, mostra tutte le sue lontananze. Di forma e sostanza.
Un giovane uomo, che dopo saprò chiamarsi Adnan, fuma una sigaretta seduto su un muretto davanti alla targa di Cesare Battisti che dà il nome a questo spicchio di frontiera. "Colui che si stabilisce a lungo in un luogo" vuol dire il suo nome. Forse lui non lo sa, e se lo sa, non sembra proprio avere l’umore per cogliere la speranza che è dentro al suo nome. Guarda nel vuoto finché il vuoto non glielo occupa qualcuno, io.
“Salam aleikum”, azzardo, che la pace sia con te. E no, non so l’arabo, ma ho scritto un libro sull’argomento e due frasi in croce le ricordo. E forse possono servire, forse. Infatti mi risponde, ma non capisco. E forse è anche meglio, perché il tono pare poco amichevole.
"Vai in Francia?", riprovo.
Si alza, è più alto di me, e molto poco amichevole, ora.
"Inshallah", che Dio sia con te.
Il saluto sembra placarlo.
"Tuo nome?", azzardo in italiano.
"Adnan".
"Da dove vieni?":
"Libia, guerra. Francia, famiglia. Francia".
Sì, Adnan, Francia. Che però non ti vuole e ha schierato l’Antiterrorismo e i droni per chiudere l’ondata di profughi che passa da qua. Non chiude la frontiera, quello no, perché Schengen non lo permette, e infatti la ’solita’ frontiera, quella dell’autostrada, quella dei cartelli blu, è tranquilla, apparentemente come sempre. Ma la guerra silenziosa si combatte nei boschi, di notte, dove la luna è un impiccio perché illumina e i bambini piccoli non si portano perché piangono e attirano attenzioni.
Così lascio Adnan ai suoi sogni e mi metto a capire se da qualche parte ci sono i cosiddetti passeurs, quelli che chiedono anche 150-200 euro a persona per portare i migranti dall’Italia alla Francia, attraverso i sentieri che nascono dietro la frazione di Grimaldi, il paesino più vicino al confine e diviso fra Grimaldi Inferiore e Superiore.
I passeurs sono i Caronte, o i Virgilio fate voi, dei sentieri pericolosissimi di Grimaldi Superiore, dove basta mettere un piede nel posto sbagliato per finire male. Parecchio più a valle. E poi bisogna saper leggere i segni sui tronchi degli alberi, le piccole frecce, i simboli del sole che danno la direzione giusta. Verso ovest. Dove tramonta il sole e, forse, sorge la speranza.
I passeurs, li trovi alla stazione, o fuori dalla porta della sede della Caritas, dove ormai si servono quasi duecento pasti al giorno e la situazione è al collasso. E altri ne trovi sull’argine del torrente Roja, all’altezza del rione delle Gianchette, o sotto i cavalcavia, dove intere famiglie sono pronte a tutto per andare ’di là’. Intanto dormono su materassi luridi, fra rifiuti e sacchi di plastica colorata contenenti vite a perdere. E aspettano. E aspettano. E aspettano ancora. Ed è impressionante pensare che ancora per poco è estate, ma fra poco qui si geleranno le vene e allora ti vergogni, tu comodo uomo europeo, e giri lo sguardo.
In giro per la città, o sull’Aurelia verso Mentone, trovi solo uomini di colore a piedi, spesso in ciabatte, e vestiti con le maglie di squadre di calcio europee (ma uno aveva anche quella di Ronaldo, araba e milionaria, dell’Al-Nassr, il massimo dell’antitesi), però nei luoghi oscuri di questo spicchio di terra che dovrebbe essere Europa ma non le somiglia affatto – binari, argini, cavalcavia, case abbandonate – spuntano anche donne, cui il velo non riesce a nascondere gli occhi spaventati. Ché il terrore è ovunque: nel passato di un viaggio infinito e angosciante, nel presente di un’attesa impotente, nel futuro nascosto da una nebbia che non si alza mai.
Un cantuccio di speranza è la Caritas di Ventimiglia, l’ultima trincea che, non può essere un caso, ha la sua sede nella strada che porta il nome di uno dei pochi santi della Chiesa cattolica che fu un militare, San Secondo. E come in tutte le guerre, nelle trincee, dove si muore, si piange e si soffre, spuntano anche fiori bellissimi. E un fiore bellissimo è Alessandro Foretti, ottantenne cuoco in pensione, che tutti i giorni è lì, in cucina, alla Caritas, a cucinare per quelli che lui considera come "suoi figli". "Ho imparato l’accoglienza da mio padre – dice mentre gira un mestolo dentro un pentolone enorme di pasta – che, quando dal meridione arrivava la gente che cercava lavoro in Francia, diceva a mia madre di mettere la pentola più grande per la minestra e poi li portava tutti a mangiare. Per questo, quello che sta facendo ora la Francia proprio non mi va giù".
Cala il buio, ora, qui a Ventimiglia. E’ un’altra notte di sfida nei boschi fra passeurs e polizia francese. Il giorno finisce, la speranza, per qualcuno, è appena iniziata. Una speranza che costa 200 euro.