Conegliano Veneto (Treviso), 7 ottobre 2023 – Il suo Vajont da alpino, 60 anni dopo. La prima immagine che ha davanti agli occhi, a Longarone.
"Il deserto assoluto, non sembrava vero, non sembrava reale, non sembrava possibile”. Lino Chies, 81 anni, di Conegliano Veneto (Treviso), ha scoperto l’orrore assoluto da ragazzo, a 21 anni. Addentrandosi nella notte del 9 ottobre 1963 nel nulla di Longarone, con il 6° reggimento artiglieria da montagna.
C’è una persona che lei abbia salvato e con la quale sia rimasto in contatto?
Una pausa, al telefono, un sospiro che pare infinito. “Assolutamente no. Gli scampati sono stati davvero pochi. Abbiamo scavato a mani nude, con pala e piccone. Io ho trovato solo cadaveri e ghiaia. Corpi a pezzi”.
Più di 800 vittime non sono state riconosciute.
"Noi abbiamo provato a ricomporre i cadaveri. Li portavamo lungo il Piave, i camion li raccoglievano. Poi venivano lavati e vestiti, in attesa del riconoscimento dei parenti. Ma ripeto, tanti erano a pezzi”.
Un trauma per sempre, anche per i soccorritori.
"Fino a 10 anni fa mi svegliavo in piena notte e buttavo per aria tutto, mia moglie allungava un braccio e mi diceva, calmo. Per noi è stato spaventoso, la psiche non riusciva a sostenere quello che vedevamo. A 21 anni non si può trovarsi di fronte a una strage del genere”.
Scavare a mani nude, senza mangiare e senza dormire.
"Non ne avevi proprio voglia, di mangiare e dormire. Quello era l’ultimo pensiero. C’era tanto, tantissimo da fare ma con poche, pochissime speranze. Io non ne ho trovato uno solo vivo... Ogni soccorritore è rimasto per due settimane-sedici giorni. Quelli che vedevo erano tutti morti. Uno choc totale”.
Giorni e notti a cercare.
"Andavamo avanti con pala e piccone. Poi quando si è cominciato a sentire gli odori, allora è arrivata la sanità e abbiamo cosparso di calce tutta Longarone. A mano, non c’era altro mezzo. C’era il rischio di epidemie, dovevamo farlo. E quando non c’era più nulla da salvare, hanno messo in moto le escavatrici e le ruspe. Ma prima abbiamo rivoltato tutto a mano”.
Dove avete trovato la forza?
"Andavamo avanti perché c’era questa speranza, questa volontà di trovare qualcuno vivo. Ma era solo disperazione. Le persone, i parenti, arrivavano e non sapevano neanche dove era la loro casa. Perché non c’erano più nemmeno le fondamenta. C’erano pochi, pochissimi punti di riferimento per dire: ecco la mia famiglia viveva qui”.
In questi anni ha sempre partecipato alle celebrazioni?
“Sempre. Ogni anno, il 9 ottobre sono a Messa a Longarone. Per me è una data fissa, non esistono altri impegni”.
Qual è il destino della memoria di questa strage senza uguali?
"Questo non saprei dirlo. Ci sono dei soccorritori che non sono mai andati su, non hanno trovato la forza di superare questo impatto. Non vogliono neanche parlarne. Troppo grande”.
Un olocausto, ha scritto Tina Merlin.
"Non è descrivibile quello che abbiamo visto. Quando è arrivata l’alba e hai capito cosa era successo, ti sono cadute le forze. Era la disperazione assoluta. Tra di noi continuavamo a ripetere, ma è impossibile, è impossibile… Io poi conoscevo Longarone, com’era prima. E adesso avevo davanti il nulla assoluto. E tutto questo si poteva evitare, ma lo abbiamo capito dopo. Quella notte, all’inizio, ricordo che abbiamo pensato a un attentato. C’era l’Alto Adige che in quel periodo rompeva le scatole. Ma all’alba abbiamo capito, era venuta giù la montagna”.