Sabato 27 Luglio 2024
RITA BARTOLOMEI, INVIATA A ERTO E CASSO
Cronaca

Vajont, quel giorno maledetto. "I tecnici mi dissero che non c’erano rischi. Alla sera il disastro"

L’ira di Osvalda, 85 anni, che era incinta: siamo stati dimenticati. "Per costruire il bacino artificiale tolsero la casa ai miei genitori. Non posso dimenticare il pianto di mia madre"

Erto e Casso (Pordenone), 7 ottobre 2023 – L’Osvalda – come la chiamano tutti – giura che non lascerà mai la sua casa a San Martino, sopra Erto. "L’ho detto ai miei ragazzi, abbiamo fatto un accordo, io resto qui".

Legno e pietra, le foto del ’prima’, ricordi incancellabili. "Quella mattina del 9 ottobre 1963 me la ricordo bene, era un mercoledì – si commuove Osvalda Pezzin, 85 anni –. Mi trovavo a casa di mia suocera per fare qualche lavoretto, ero incinta di mia figlia Barbara che è nata il 21 ottobre. Ho incontrato tre tecnici della diga. Ho chiesto: ci avvertirete quando è ora di fuggire, vero? Loro mi hanno sorriso e mi hanno risposto: non si preoccupi signora. Era quasi mezzogiorno. Poi la sera, il disastro".

“Indimenticabile”, ripete. "Ma i miei guai sono cominciati molti anni prima. Ero bambina, un giorno è arrivato un geometra della Sade, era di Longarone. Abitavo in quella casa di sotto con i miei nonni", e indica una vecchia foto appesa al muro. "Ci ha detto che dovevamo andare via, che requisivano tutto perché c’era da fare questa diga. Quel giorno ho visto la disperazione. C’era gente che magari perdeva un pezzo di terra senza tenerci troppo. I miei, invece, perdevano tutto. Mia mamma piangeva. Una scena che non riesco a dimenticare".

Entra la figlia, parlano in ’ertano’ stretto. Saliamo sopra il borgo, tra i boschi. Là in fondo alla valle si vede quel che resta del lago. E tra gli alberi sbucano piloni di ferro. "Ce ne sono almeno 3 – racconta Barbara –. Mio papà diceva che li usavano per misurare il livello dell’acqua". Essere nata dopo "e vedere le foto di com’era la valle... Un grande dolore. Mia nonna piangeva sempre quando me ne parlava".

I vecchi raccontavano delle slavine, di una terra che di colpo poteva tradirti. Erto e Casso – il Comune – nella contabilità della strage ha avuto 158 morti, l’equivalente di 69 famiglie. Dopo sessant’anni, si affacciano ancora sentimenti contrastanti. Si dispiace Osvalda: "Va bene che Longarone ha avuto tutti quei morti. Ma noi quassù siamo stati dimenticati. Invece bisogna pensare anche ai vivi".

E ha avuto sette vittime in famiglia Franca Filippin, 86 anni, che dopo pranzo scende da casa nel bar ristorante di famiglia nel centro di Erto. Il passo è sostenuto da un bastone intagliato, la mano inconfondibile è quella di Mauro Corona, che ha la bottega proprio lì accanto. "I nostri morti? Ne abbiamo ritrovati solo 3, anche se tutti hanno una croce al cimitero di Fortogna. Se provo rabbia? Non so dire davvero che cosa provo".

Pochi chilometri per arrivare a Casso, all’ingresso del borgo un grande crocefisso in legno, "resisteva all’onda", avvisa una scritta. E ci sono cartelli che guidano il visitatore attraverso i vicoli di pietra. Gli abitanti oggi sono 13, forse 15, ovunque fiori, un messaggio si chiede "cosa siamo senza la memoria?". Un altro, più avanti, ricorda che "il peso della tragedia sembrava di sentirlo insieme a Marcello e a quella sorellina con cui scappava. Ma anche insieme a tutte le ombre che non ce l’avevano fatta".

Il segno dell’onda assassina è ancora visibile su qualche facciata. Anche se a salvare Casso furono le rocce alte, a strapiombo. Nel silenzio irreale si sentono risate di donne, nella bottega ristoro Elena D’Arsié, 23 anni, sta parlando con la padrona di casa. Si è laureata su questo "borgo antico contemporaneo", una scommessa. "Stando qui – sorride – ho compreso come una piccola comunità con un passato molto importante possa intrecciare una relazione con il presente, quindi con l’arte di Dolomiti contemporanee. Nonostante le difficoltà e le resistenze". Un segno, verso il futuro.