Longarone (Belluno), 7 ottobre 2023 - Sette minuti. Dura sette minuti il semaforo per la diga del Vajont. Il tempo di pensare che il 9 ottobre 1963, 60 anni fa, di minuti ne sono bastati 4 – forse 3 – per spazzare via dalla faccia della terra Longarone, seminare morte a Erto e Casso e in altri piccoli centri. Per uccidere 1.910 persone e provocare una strage di bambini e ragazzi, 487 avevano tra zero e 15 anni. Ancora: 817 vittime non sono mai state identificate. Polverizzate.
"Non c’era più niente, solo melma. E i raggi del sole si riflettevano su quella melma. Non c’era niente, era tutto livellato. Neanche un albero, neanche le rovine, come succede dopo un terremoto. Ho guardato e ho detto, io non ci credo, io non voglio crederci". Viviana Vazza, 76 anni, a 16 si ritrovò sola. Morti tutti: padre, madre, sorellina più piccola, nonni, altri parenti. Lei si salvò perché era in collegio, a Belluno. Da allora si tormenta, perché io no? Quel che vide, arrivando, la mattina dopo, ancora oggi è un dolore atroce, mai risolto. Nonostante l’arte, dipinge e sta preparando il suo secondo libro sul Vajont, nella bella casa piena di colori a Sospirolo (Belluno), in una cartella di plastica è conservato gelosamente l’ultimo dettato della sorellina Carla, aveva solo 7 anni.
Un incubo, come quello che la svegliò di soprassalto alle 22 della sera maledetta, "mi svegliai, chiesi aiuto, la suora mi venne a calmare". Non poteva sapere che a quella stessa ora, su alla diga, il geometra della Sade Rittmeyer stava telefonando preoccupatissimo all’ingegner Nino Alberico Biadene, che aveva preso il posto del progettista Carlo Semenza, morto nel ’61. Gli disse che vedeva la montagna muoversi. "Non si inquieti", si sentì rispondere. Con la raccomandazione, però, di "dormire con un occhio solo", come scrive Tina Merlin ("Sulla pelle viva"). Lei, la giornalista dell’Unità che aveva previsto tutto (anni prima), la musa di Marco Paolini e della sua orazione civile.
Alle 22.39 di quel 9 ottobre 1963 "la morte arrivò all’improvviso, dal buio, cavalcando una grande onda", è l’immagine di Mauro Lampo. L’artista ha firmato la cornice d’acciaio e ruggine che oggi dal belvedere di Longarone inquadra la diga, là in fondo, una panchina per il tempo della memoria. Quella è la fotografia che vede tutti i giorni dal suo appartamento Bruno Pradella, "ormai ci sono abituato ma all’inizio è stata dura", confida, mentre con il crepuscolo in paese si accendono i lampioni, "da qualche tempo lassù è tutto illuminato anche di notte". E no che non è crollata quella barriera - anche se ogni anno qualcuno riesce a scriverlo - ma porta ancora i segni dell’ondata gigantesca che la scavalcò, passando sopra ai 261,60 metri di quell’opera ardita, al tempo la diga a doppio arco più alta del mondo, "e noi bambini pensavamo che bello è nostra, poi crescendo abbiamo scoperto che era di là, in Friuli", sorride amaro Pradella, ex vicesindaco. Nel frattempo erano spariti quasi tutti, "nella mia classe da 15 siamo rimasti in 2, il 9 ottobre 1963 il futuro del nostro paese è scomparso", si commuove, gli occhi si velano di lacrime e la voce si strozza.
Alle 22.39, quando dal monte Toc si staccarono 260 milioni di metri cubi di roccia e detriti – e sarebbero bastati 32 secondi, questo il tempo di caduta della frana registrato nei sismogrammi di tutta Europa – i bambini erano a letto.
“Avevo 10 anni, dormivo con mio fratello di 3, gli tenevo la mano", il flash di Gino Mazzorana, mentre indica dal portone del municipio dove lavora una casa gialla, un tempo lì c’era la sua. "Ricordo tutto di quella notte – ripensa –. L’onda mi ha trascinato fin là, per trecento metri". E di colpo tornano i fantasmi che non lo hanno lasciato più. "Prima un gran vento poi un boato, non riesco ancora a descriverlo, non l’ho più sentito quel rumore neanche quando è arrivata la tempesta Vaia. Era come un tuono, la casa ha cominciato a tremare. Gridavo, mamma aiutami, c’è il terremoto". Ma non ha risposto nessuno. Sono morti tutti, "il mio fratellino è stato trovato sotto gli scalini del Comune. I miei genitori non avevano ancora 40 anni. Ho perso anche uno zio".
Si definisce "sopravvissuto" e ci tiene a distinguere, "io sono stato estratto dalle macerie, avevo una trave che mi bloccava le gambe. Gridavo, rivedo le pile dei soccorritori che mi hanno salvato scavando a mani nude". Oggi "soffro a prendere l’ascensore, a mettere la cintura di sicurezza in auto, a entrare in galleria. Sono tutte cose che mi sono rimaste e non se ne vanno. Cosa racconta il Vajont 60 anni dopo? I politici devono capire quello che è successo perché non accada più. La gente comune, quelli che visitano i luoghi della memoria, lo sanno benissimo".
Questa mattina, mentre gli operai sono in giro per tirare a lucido lapidi e luoghi per un anniversario solenne che vedrà tra gli ospiti il presidente Sergio Mattarella, la diga è affollata di comitive. Si sentono le voci allegre di bambini e ragazzi, ascoltano in silenzio le spiegazioni delle guide – qui siamo nel parco della Dolomiti friulane –, ma poi tornano piccoli quando comincia la traversata da quell’altezza vertiginosa.
Si entra solo così, prenotando le visite (a pagamento), un cartello ricorda che anche salire lungo certi sentieri è proibito. Lassù, di fronte alla diga, c’erano i dormitori di chi lavorava nel cantiere, operai e tecnici sono stati tra i primi ad essere spazzati via dall’onda assassina. Come la bomba di Hiroshima moltiplicata per due, hanno calcolato.
Era un mercoledì di Coppa, nei bar tutte le tv erano sintonizzate su Real Madrid-Rangers Glasgow. A una cert’ora i carabinieri avevano chiuso la strada per Erto. Bastano 3 righe di Tina Merlin: "La storia del "grande Vajont", durata vent’anni, si conclude in 3 minuti di apocalisse, con l’olocausto di duemila vittime". Quelle stesse parole accompagnano il visitatore qui nel museo di Longarone. "Siamo rimasti in silenzio per decenni. Poi è arrivato Marco Paolini e ci ha spinto a trasformare questa catastrofe in un fatto di coscienza civile", è il pensiero di Renato Migotti, scampato e presidente dell’associazione "Vajont, il futuro della memoria". Racconta: "Prima ci chiamavamo "superstiti", abbiamo cambiato nome dopo il cinquantesimo, anche per guardare avanti". Fa una pausa, sospira: "Purtroppo il Vajont non ha insegnato niente o comunque ha insegnato poco. Noi andiamo avanti, cerchiamo di fare memoria attiva. Ma servirebbero più giovani, anche nelle nostre associazioni". Una scolaresca sta salutando il sindaco di Longarone Roberto Padrin, eccoli tutti insieme per la foto ricordo. "Bisogna venire qui, per coltivare la memoria", sta dicendo una prof.
(1 - continua)