ERA incombenza di nonna Beatrice: dopo avermi aiutato a preparare una cartella ‘di pronto intervento’ con i compiti per le vacanze rattoppati all’ultimo momento, stirava il fiocco candido e lo disponeva accanto al colletto rigido. Quello era il segnale: tutto era pronto per affrontare il primo giorno di scuola. Ogni volta lo facevo con trepidazione, curiosità, gioia e maturità crescente. Poi, lo sapevo, il fiocco si sarebbe spiegazzato e macchiato d’inchiostro e la cartella sarebbe diventata via via più pesante sino a dolere sulle spalle.
SORRIDO pensando che i ragazzi andranno a scuola con un palmare, custode ultraleggero di un sapere pesante e antico, capace di cancellare quel nostro barbaro vezzo, all’uscita, di regolare le questioni scoppiate in classe a cartellate. Ma non voglio tediarvi con i bei tempi andati e col ‘com’era verde la mia valle’. Vorrei solo interrogarmi su che cosa sia rimasto immutato tra il primo giorno di scuola che fu e quello che, oggi, sarà per migliaia di ragazzi italiani. La scuola, nonostante la maledetta crisi, e l’incertezza che si ripercuote sull’umore dei nostri figli, rimane sempre un punto fermo. Rappresenta l’angolo in cui riporre le speranze anche quando tutto sembra andare a scatafascio.
UNA DELLE POCHE certezze rimaste è che l’istruzione riesca a dirimere diseguaglianze, miseria e violenza che si annidano invece nel buio antro dell’ignoranza. Accompagnare i nostri ragazzi e rimanere quasi nascosti a osservarli entrare nel grande portone dell’istituto, ci regalerà stamani un senso di sollievo, la certezza di aver fatto il nostro dovere, la speranza di poter offrire loro un futuro migliore. Poco importa se dovremo contribuire ai bisogni più elementari degli studenti: che cosa vuoi che sia qualche foglio per fotocopie e qualche rotolo di carta igienica consegnata al bidello (che non si chiama più così), di fronte al sapere di chi ci seguirà? Il ragionamento non fa una grinza. Peccato che spesso pretendiamo che insegnanti mal pagati e preparati con metodi in vigore nel Regno dei Savoia, educhino i nostri figli come noi non siamo stati in grado di fare. E non solo, siamo sempre pronti a prendere le parti del sangue del nostro sangue, sino a accapigliarci con chi li conosce assai meglio di quanto le nostre fugaci presenze di genitori indaffarati ci abbiano consentito di fare. Quando ci troveremo davanti a incomprensioni e difficoltà, cerchiamo allora di non addossare sempre la colpa a chi per dovere, ma soprattutto per meravigliosa missione, si è posto l’obiettivo di far crescere i nostri ragazzi sino a farli diventare adulti nel modo migliore.
PENSATE solo alla carenza di insegnanti di sostegno, alla difficoltà di rispettare didattiche sempre meno al passo coi tempi, oppure trovarsi fuori dal tempo dinanzi a allievi che, in campo tecnologico, ne sanno quanto cento professori e mille maestre. Pensate alla multietnicità e alle diversità religiose. Pensate agli edifici fatiscenti, ai soldi che non ci sono, al senso dell’autorità che cambia.
EPPURE loro, gli insegnanti, sono e saranno lì ogni mattina a confrontarsi con i nostri figli che non avranno studiato perché avevano mal di pancia e che saranno arrivati in ritardo perché l’autobus non passava. Ecco che cosa non cambia, perché non può cambiare: non le scuse vecchie quanto il mondo, ma l’entusiasmo di chi affida i ragazzi alla scuola e il senso di abnegazione di chi li accoglie. La speranza, la voglia di crederci sempre, consci che se dovesse crollare anche questo ultimo bistrattato baluardo, c’è davvero il rischio che il futuro diventi piatto e incolto. Non sarà il vostro caso, uomini e donne di domani, ma stamattina accarezzate il fiocco ben stirato e chiudete il colletto rigido senza pizzicarvi. E poi sorridete alla vita che, ieri come oggi, vi si apre davanti. Buon viaggio, ragazzi!
di Marco Buticchi