Mercoledì 13 Novembre 2024
ERIKA PONTINI
Cronaca

Il nuovo direttore Verde: “Portare gli Uffizi nel futuro, questa è la mia sfida”

L’intervista. “Non avrei voluto candidarmi alla guida della Galleria. Mi sembrava un atto di superbia”

Simone Verde, romano, classe 1975, è un museologo e storico dell'arte

Simone Verde, romano, classe 1975, è un museologo e storico dell'arte

Firenze, 4 agosto 2024 – Uno zio cardinale, Alessandro Verde, che nello scorso secolo fu prefetto della Congregazione della fede. “Una leggenda familiare dice che si avvicinò a un soffio dal diventare Papa. Fu lui a canonizzare Giovanna D’Arco. Ma il prozio di mio padre era Orson Welles, come dire il diavolo e l’acqua santa. Basterebbe questo per comprendere quanto la mia sia una famiglia particolare”. Le maniche della camicia bianca arrotolate sugli avambracci, la tipica cadenza romana, nonostante una vita trascorsa in giro per il mondo, compreso un ventennio a Parigi e cinque negli Emirati. Simone Verde, 48 anni, da febbraio alla guida degli Uffizi, nonostante l’età ancora giovane sembra aver vissuto più di una vita. Filosofo, storico dell’arte, museologo, negli anni degli studi giornalista e producer, ma con un unico comune denominatore: farsi custode e messaggero del bello, adesso dalla poltrona più imbottita dei musei mondiali.

Verde, quando era studente ha prodotto anche una serie sul mostro di Firenze…

“Sì, mi sono mantenuto facendo un’infinità di lavori, anche il portiere di notte se è per questo, perché la mia famiglia ha sempre preteso che ce la facessi da solo. Ma ho sempre provato a fare sì che questi lavori si piegassero nel senso dei miei studi. Ho realizzato moltissimi reportage sull’ecologia, il che vuol dire sulla difesa del paesaggio e del patrimonio, ed è la ragione perché oggi sono qui: per proteggere l’arte non bisogna solo riconoscerla e studiarla, ma anche, forse soprattutto, promuoverla nella consapevolezza sociale”.

Per tutto questo ha fatto anche il giornalista?

“L’ho fatto per mantenermi ma ho interpretato questa bellissima professione per sostenere nel mio piccolo la coscienza collettiva a sostegno del patrimonio”.

E il reportage sul Mostro?

“Fu per pagarmi il dottorato e, come tante esperienze simili, mi aiutò anche a vedere il nostro Paese con gli occhi dei giornalisti stranieri. Andammo di notte sui luoghi dei delitti delle coppiette e Intervistai Pierluigi Vigna. Ebbi difficoltà ad addormentarmi per qualche settimana. Con Vigna si creò una grande sintonia, mi invitò a casa e mi parlò del progetto di un libro. Gli chiesi quale fosse stata l’esperienza più forte della sua carriera di magistrato. L’acre odore della carne quando dovette entrare nel tunnel dell’Italicus, rispose”.

L’ambienterebbe un noir agli Uffizi?

“Sì, ma solo se fosse di altissimo livello”.

Infanzia romana, giochi di bambino nei giardini Vaticani. Storico liceo Mamiani da cui sono uscito premi nobel e padri della patria da Guido Calogero a Emilio Segréè Ma a scuola c’era pure Asia Argento…

“Ma come ha fatto a saperlo? Asia era simpatica eravamo compagni di classe alle medie. Ma al tempo il vero vanto pop se è per questo, era la mia professoressa di matematica, zia di Cristina D’Aveva. Una donna di grandissima classe, erano due gocce d’acqua”.

Che bambino era?

“Ribelle”.

Zio cardinale abbiamo detto. Che rapporto ha con la Chiesa?

“Mi affascina da sempre la teologia cristiana dei primi secoli e in particolare la patristica. Quella della chiesa cattolica è stata la più grande operazione spirituale e ideologica della storia. Che ancora perdura nei suoi effetti. Come ha scritto Carl Schmidt quasi totalità dei concetti della modernità derivano da principi teologici secolarizzati della cui sacralità non siamo più consapevoli. Per questo sono sostenitore, nel mio settore, di una certa risacralizzazione intellettuale delle collezioni, anche per risarcire dalla grande violenza che ha loro imposto la storia dell’arte del positivismo. La ricerca di un senso ultimo è un principio insopprimibile. E quando si fa finta di farne a meno rimane come un non detto che scava fiumi carsici nella coscienza. A quel punto si manifesta in maniera impropria, generando ideologie e totalitarismi. Si può forse fare a meno della religione ma non del sacro. E per questo, nel mio lavoro cerco di rivelare il principio ultimo ricercato dai codici estetici. È anche seguendo questa visione che dopo filosofia e storia dell’arte ho preso un dottorato in Antropologia. Ho avuto la fortuna di avere come relatore uno dei massimi conoscitori del mondo globale, Marc Abelès che fu anche allievo di Lévi-Strauss. E sempre per la stessa ragione ho voluto fortemente lavorare al Louvre di Abu Dhabi dove il confronto con il mondo islamico non poteva che portare a una verifica delle nostre pratiche nel confronto con le culture non secolarizzate del mondo globale”.

Lei guida uno dei più grandi musei al mondo. Eppure non era sicuro di presentare domanda per il posto da direttore. Perché?

“Lo ritenevo un atto di superbia. E infatti inizialmente avevo fatto solo domanda per Brera. Sono stato perseguitato da un’amica perché mi candidassi agli Uffizi. Una vera amica, che dice? Non senza aver chiesto prima un parere ad alcuni colleghi del Ministero, però, perché tutto avrei voluto tranne che si pensasse che mi ero montato la testa.

Un parere a Roma?

“Se fosse effettivamente stato visto come un atto di presunzione. Mi risposero di no. Che era legittimo”.

Dunque con il suo arrivo ci dobbiamo aspettare una rivoluzione agli Uffizi?

“Abbiamo inaugurato le nuove sale con uno slogan: futuro nell’antico. Gli Uffizi del Cinquecento sono il prototipo, anche architettonico, del museo occidentale. Dentro la sua forma sta depositata l’idea che la nostra cultura ha di se stessa e del ruolo dell’uomo nel mondo. Ce lo racconta la Tribuna, spazio neoplatonico in cui l’arte sta tra la materia rappresentata dai marmi policromi del pavimento e Dio che si manifesta nella luce madreperlacea della volta. Questa visione opera ancora nel mondo contemporaneo. Musei ispirati al modello degli Uffizi si trovano in tutto il mondo, in Europa in America e persino in India. Da questa primogenitura dobbiamo rivendicare un ruolo nel ripensamento dei musei del XXI secolo e farne un laboratorio dell’identità italiana del nostro tempo”.

Rigenerarci sì ma in che direzione?

“I musei sono nati come strumenti di consapevolezza, di cittadinanza e hanno un impatto rilevante sui tessuti economici, anche a livello locale. Oltre a prendere parte alla comprensione di come il passato ci ha determinati, non possiamo vivere solo di turismo e di servizi. Puntando all’efficienza tecnologica i musei diventano stimolo per lo sviluppo economico, sia per gli indotti che creano con le loro necessità tecnologiche che come modello culturale. In fondo la scienza al servizio di questi istituti risponde alla promessa di vincere il degrado della materia consegnando in un tempo lungo, che ambisce all’eternità, i documenti della storia”.

Eppure molti, soprattutto giovani, entrano negli Uffizi per farsi un selfie e non guardano affatto le opere…

“Attenzione, non è necessariamente negativo. significa che le opere d’arte per i giovani hanno in qualche modo, anche inconsapevolmente, una loro sacralità, di cui vogliono carpire il potere. Bisogna stare attenti tuttavia che non diventino uno mera scenografia, ovvero che non vengano utilizzate senza che se ne comprenda l’alterità e l’autonomia. Altrimenti sarebbe un tradimento inconsapevole, e non una loro libera e legittima interpretazione”.

Allora via tablet e telefonini?

“Non proprio, quando le persone che non hanno interesse per le opere d’arte entrano in un museo è l’occasione per esercitare le nostre missioni di servizio pubblico. E se non ci riusciamo, il fallimento è nostro. Anche per questo gli Uffizi devono essere museograficamente pertinenti. Chi entra deve uscire in qualche modo interpellato dall’impatto con le collezioni ed avere voglia di approfondire razionalmente il senso di questa sollecitazione, fosse anche solo emotiva. Per questo stiamo riallestendo le sale dando ossigeno alle opere di questa collezione di qualità senza pari perché possano esercitare tutto il loro potere persuasivo senza risultare affogate o relativizzate negli spazi. E stiamo lavorando a una serie di dispositivi di mediazione, anche digitale. A mio avviso bisogna guardare al pubblico non tanto come a una massa di turisti ma in quanto composto da cittadini cui dare un servizio, questa è a mio avviso la risposta corretta all’overtourism”.

Quale risposta?

“L’aumento della qualità. Anche a fini per così dire egoistici: i visitatori portano poi nel mondo l’immagine che si sono fatti del nostro Paese”.

Progetti in cantiere?

“Stiamo lavorando per risolvere il problema della viabilità di Boboli stressata dalle grandi piogge e ripensare il verde attraverso un finanziamento appena sbloccato di 650 mila euro; cerchiamo sponsor per intervenire al giardino del Cavaliere. Su Pitti abbiamo in programma il restauro delle facciate, quello del cortile dell’Ammanniti e una nuova illuminazione di tutto il piano nobile. Lavoriamo a un deposito letto di mobili e arazzi nelle ex Pagliere. Procederemo alla riapertura degli appartamenti reali chiusi da due anni. Stiamo lavorando al riallestimento completo del tesoro mediceo, uno dei più importanti del mondo. Abbiamo lanciato il cantiere per il rifacimento dell’Isola di Nettuno e dell’anfiteatro di Boboli”.

Ma è un fiume in piena…

“Gli Uffizi impongono grandi obiettivi”.

E per quanto riguarda il corridoio Vasariano?

“Riapriremo entro dicembre”.

Come sarà?

“Non glielo posso ancora dire”.

Ci ricollocherà gli autoritratti ?

“Sarà una sorpresa”.

La gru delle polemiche?

“Deve venire giù, punto. Il tema sta nella logistica di cantiere: la gru serve per sollevare i materiali e stiamo facendo in modo che non serva più e possa essere sostituita con altri presidi. Per questo ho nominato un nuovo responsabile dei lavori e ho più volte incontrato la ditta”.

Chi la toglie?

“La ditta che l’ha collocata, è nel contratto”.

Quando?

“Le garantisco che la gru verrà rimossa non appena sarà possibile”.

Lei ha lavorato per il Louvre di Abu Dhabi. Sogna un progetto di Uffizi negli Emirati?

“Non necessariamente nei Paesi arabi, mi piacerebbe che l’Italia, già presente attraverso moltissime personalità nel panorama internazionale, lo facesse anche mettendoci la faccia. Abbiamo molto da dare e molto da prendere. All’inizio del ‘900 uno storico dell’arte di fondamentale importanza, Adolfo Venturi, lamentava che la storia dell’arte italiana veniva scritta dai tedeschi e dai francesi che ci utilizzavano nella loro eterne lite tra loro. Anche oggi se non si è presenti a livello scientifico su scala globale si rischia che il proprio passato venga appunto scritto da altri. La storia non la scrivono sempre i vincitori? Aprirci al mondo, confrontandoci con le ultime innovazioni scientifiche non può che aiutarci a scongiurare questo rischio”.

Qual è la giornata tipo del direttore degli Uffizi?

“A letto tardi e sveglia presto. Sto molto nelle sale e nei cantieri ed essendo gli Uffizi ramificati in mezzo città ciò significa almeno 15 chilometri a piedi al giorno (ride)”.

Famiglia romana. La vede spesso?

“Mia madre non c’è più. Vedo ovviamente mio padre e sono molto affezionato a mia nonna, 99 anni, vive ad Anagni e almeno una volta al mese la vado a trovare. Sono il suo caregiver”.