Giovedì 7 Novembre 2024

Trent’anni fa la bomba a Milano "Sentimmo un boato, poi nulla E in via Palestro crollò il mondo"

Il racconto del nostro collega de Il Giorno, testimone di quei momenti e di quel dolore "Camminavamo in mezzo ai corpi senza vita, tra le lacrime dei poliziotti e dei vigili del fuoco".

di Gabriele Moroni

MILANO

L’esplosione parve far vibrare il Palazzo dell’Informazione. Ero al telefono con Manu, la moglie di Stefano Guatelli, il ‘mio’ fotografo, il compagno di lavoro di sempre, uno dei tanti che ci hanno lasciato troppo presto. Volevo organizzare con loro una delle nostre solite cene, un saluto prima della pausa di agosto. Ci fu un attimo di silenzio totale, di vuoto mentale. La voce di Manu arrivò incrinata da uno sbigottimento preoccupato. "Cosa è successo?", come un sussurro. "Non lo so, ma rintraccia tuo marito e digli di venire qui subito".

Quei pochi metri da piazza Cavour a via Palestro durarono qualche secondo, eppure li ricordo a uno a uno come se li avessi percorsi in surplace anziché di corsa. "Paso, Paso".

Fiamme. Fumo. Il vigile del fuoco era chino sul collega, quasi a trattenere la vita che fuggiva. "Paso, Paso". Un grido, una invocazione, un pianto. Ma Sergio Pasotto era morto, morto nel giorno del suo compleanno. Come gli altri due vigili del fuoco, Carlo La Catena e Stefano Picerno. Come il vigile urbano Alessandro Ferrari. Come Driss Moussafir, ambulante marocchino senzatetto, clandestino in Italia. Dormiva su una panchina, il trambusto lo aveva svegliato, incuriosito si era avvicinato al Padiglione d’Arte contemporanea. Un uomo si aggirava in quello scenario di morte, la camiciola estiva strizzata dal sudore. Era il professor Umberto Veronesi: passava in auto, si era fermato a prestare soccorso. Stefano era lì. Lavorammo fianco a fianco, come sempre, attenti a non calpestare i feriti e i corpi senza vita. Stefano scattava. Piangeva ma il suo obiettivo non perse un solo angolo. Piangevano o si sforzavano di non piangere del fuoco e vigili urbani, mentre le ambulanze portavano via i corpi straziati dei loro colleghi. Un vigile del fuoco sollevò per un attimo un lembo del lenzuolo prima di coprirsi il viso con una mano e abbandonarsi alle lacrime. Dopo che ci ebbero allontanati, tentai di risalire in via Palestro arrampicandomi sul muraglione interno dei giardini, mi scorticai un braccio, rientrai in redazione dopo essermi fasciato con il fazzoletto. Il direttore Paolo Liguori si preoccupò e mi chiese come mi fossi ferito.

La ribattuta di un giornale completamente rivoluzionato venne preparata nello stanzone dei Fatti Vita, la redazione Interni di allora. Cinque morti, cinque vite bruciate, cinque storie da scrivere. Da casa di Stefano Picerno, in via Raffaello Sanzio, rispose la voce fresca di Agnese Rovì, la moglie. Erano sposati da venti giorni. "Mio marito è in servizio". Non sapeva ancora nulla. C’è stato un incidente ... Speriamo che non si sia fatto niente ... Oddio, ma cosa è successo?".

Altre telefonate, un rincorrersi affannoso di conferme e di smentite. Un’altalena snervante durata pochi, estenuanti minuti. Arrivò la terribile conferma. Agnese si precipitò fuori casa. L’immagine di un attimo fu quella di una donna bruna, minuta, pallidissima che entrava al pronto soccorso. Attonito, incapace di credere, Angelo Pasotti ebbe poche parole: "Non sapevo niente. Nessuno ci ha avvisato. Ho sentito che mio figlio era morto dal telegiornale della Rai. Ho sentito bene il nome, Sergio Pasotto. Mia moglie e mia cognata adesso sono all’ospedale. Non so altro, non so niente. So soltanto che mio figlio è morto".

Quella notte in pochi della redazione rimasero a casa. Quasi tutti si precipitarono al giornale, anche per non scrivere un rigo. Vollero esserci. Era Il Giorno.

La notte passata tra due sedie nell’agenzia di Stefano. Al mattino lo spettacolo del cratere lunare aperto dall’esplosione. Seguì anche la storia di Driss, andato a morire per avere lasciato la sua panchina. Ricordo il funerale nella moschea di Segrate. ‘Driss’ in arabo significa ‘viaggiatore’. "Addio Driss, viaggiatore sfortunato", era l’attacco dell’ultimo pezzo. Trent’anni dopo. Per ricordare con dolore. Per ricordare con rabbia.