C’è una storia che parte da Bologna – anzi da Pontecchio Marconi – e s’inabissa nelle acque gelide dell’Atlantico, al largo di Terranova, fino a quasi 4 chilometri di profondità. Approda a uno dei miti del nostro tempo, il relitto del Titanic, la tomba di oltre 1.500 persone. C’erano anche decine di italiani: scamparono al disastro in tre.
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Sul transatlantico inglese che andò a picco dopo la collisione con un iceberg – erano le 2.20 del 15 aprile 1912 – doveva imbarcarsi anche l’inventore del telegrafo, Guglielmo Marconi. Ma il destino prese un’altra piega. Mentre proprio il suo sistema wireless salvò 705 vite grazie alle richieste di soccorso mandate fino all’ultimo dai due eroici operatori. Il Nobel bolognese – come ricorda Giuliano Nanni in un dossier curato dalla Fondazione Marconi per il centenario del Titanic – alla fine preferì il Lusitania, che partiva qualche giorno prima, "perché quando andava in America – spiega l’appassionato filatelico al telefono – ne approfittava per lavorare. Temeva che sul Titanic il viaggio inaugurale e la notorietà lo avrebbero distratto". La circostanza viene accennata dallo stesso Marconi in una lettera alla moglie Beatrice da New York il 16 aprile 1912 (anche se per errore la data apposta è quella del 1902). "Questo spaventoso disastro del Titanic (sul quale come sai stavo per imbarcarmi) mi costringerà a rimanere qui due o tre giorni in più. Ho assistito a scene strazianti di persone disperate venute qui e negli uffici della Compagnia a implorarci di scoprire se vi fosse qualche speranza per i loro parenti (...). Sebbene soltanto in pochi si siano salvati, tutti sembrano molto grati al wireless. Non riesco ad andare in giro per New York senza essere assalito e acclamato. Peggio che in Italia...".
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"Abbiamo urtato un iceberg", "Venite presto. Sala macchine quasi completamente allagata", furono i messaggi in alfabeto morse che partirono dalla Marconi room, dove i due giovani eroici telegrafisti, Jack Phillips e Harold Bride, rimasero al loro posto, mentre l’orchestra continuava a suonare e la fine era lì. L’ultimo segnale, debolissimo, alle 2.10, 10 minuti prima dell’inabissamento.
Il viaggio saltato è ricostruito anche nelle memorie della figlia di Marconi, Degna. Aveva 3 anni e mezzo e salì sulla torre della villa di famiglia a Southampton con la madre – che non s’imbarcò per la febbre del figlioletto Giulio – per vedere la partenza del Titanic. "I miei genitori – scrive – erano stati invitati dalla White Star Line a partecipare al viaggio inaugurale della nave" ma "mio padre aveva preferito imbarcarsi sul Lusitania, partito giorni prima, perché aveva una montagna di carte e di corrispondenza da sbrigare e conosceva l’abilità e la sveltezza dello stenografo di quel transatlantico". Conferma i fatti nel suo libro di memorie il marchese Luigi Solari, collaboratore del Nobel. Che parla di "una stenografa". Marconi le attribuì anche un altro pensiero: "Il Lusitania è una nave ormai sperimentata". Tre anni dopo, il 7 maggio 1915, venne silurata e affondata da un sommergibile tedesco.