Il tempo è tutto. Ma non è infinito. Già. Eppure quanto ne abbiamo perso in questi ultimi quattro mesi. A fine primavera il New York Times aveva elogiato l’Italia per per la capacità dimostrata nel contenere la pandemia. Finalmente avevamo sconfitto i soliti luoghi comuni di ’mangiapasta’ e ’mafiosi’ per assurgere al rango di modello da imitare. E, a settembre, dopo le vacanze, nel vedere le nazioni intorno a noi assediate dalla ripresa dei contagi ci siamo crogiolati nell’idea di essere diventati immuni. Che illusione! Il pericolo era solo dietro l’angolo. Così, in men che non si dica, ci siamo trovati dai 4.458 nuovi contagi dell’8 ottobre scorso ai 19.143 di ieri (quasi 5 volte tanto) con un balzo del tasso di positività dal 3 al 10,5%. E anche il numero dei morti è tornato a salire dai 22, sempre, dell’8 ottobre scorso ai 91 delle ultime 24 ore. Cosa andava fatto e non è stato fatto? Gli scienziati ci avevano avvertito: "in autunno ci sarà una nuova ondata". "Dobbiamo attrezzarci per tempo (neanche a dirlo, ndr)", avevano tuonato. Invece nulla.
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I tamponi
Rispetto a sei mesi fa sono stati compiuti passi da gigante: dai 45-50mila effettuati ad aprile si è passati agli oltre 182mila di ieri. Ma quanta fatica. Ci sono regioni, a cominciare dal Lazio e dalla Campania, dove prima di eseguire il test si arrivano a fare anche 10-12 ore di fila. E, cosa ancora peggiore, dal momento della richiesta – del medico di famiglia o dell’Asl – possono passare anche quattro o cinque giorni. Così c’è chi è costretto a emigrare nelle città o nelle province vicine, come è accaduto in Toscana.
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Senza dimenticare che molti, non potendo aspettare (anche perché nel frattempo l’isolamento fiduciario non è riconosciuto come malattia), si devono rivolgere ai privati. Perché, in vista di questa seconda fase, non si sono validati test veloci e, soprattutto, non si è pensato di farli eseguire, come più volte annunciato, ai medici di famiglia e nelle farmacie?
Il tracciamento
Nonostante infettivologi e virologi si fossero sgolati a dire che per frenare l’espansione dei contagi fosse necessario fermare i focolai sul nascere attraverso il contact tracing, abbiamo scoperto che non funziona. "È completamente saltato ancor prima di partire" denuncia Peppe Russo, medico di famiglia nella zona di Ponticelli a Napoli. Tanto che lo stesso ministro della Salute, Roberto Speranza, l’altro ieri ha ammesso la necessità di reclutare 2mila ’cacciatori’ di virus.
Ma non ci doveva pensare l’app Immuni al tracciamento? Sì, ma per funzionare è necessario non solo scaricarla (e ad oggi lo hanno fatto oltre 9 milioni di italiani), ma ogni volta che scatta una segnalazione, riscontrata la positività deve essere inserito un codice. Compito che spetta alle aziende sanitarie locali ma non tutte sono attrezzate. Quindi? Al tempo dei big data e degli algoritmi il tracciamento è telefonico. Solo che a farlo, secondo un report di monitoraggio settimanale dell’Istituto superiore di sanità, riservato, e visto a metà ottobre dal Sole 24 Ore, nelle Asl italiane ci sarebbero solo 9.241 i tracer. Decisamente insufficienti a far fronte all’impennata di casi. Tanto, che appunto, è necessario procedere a un reclutamento straordinario. Un compito non per tutti, però. "Oggi fare il contact tracing è molto complicato", spiega Bartolomeo Griglio, della regione Piemonte. "Durante il lockdown ogni caso positivo aveva 3-4 contatti, oggi questo numero è salito a 30-40. Se per esempio una persona poi risultata positiva va in palestra e il gestore ha tutti i nomi di chi era presente in palestra quel giorno e a quell’ora, è tutto più facile. Se non li ha, ci sono da fare parecchie indagini, che portano via tempo". Avanti così.
I trasporti
Metropolitane e autobus con la ripresa delle attività sono diventati i principali veicoli del contagio. Eppure anche qui gli avvertimenti non erano mancati. Ma sono rimasti inascoltati. Ancora una volta è mancata la programmazione. Così, mentre le aziende dei trasporti locali rivendicavano la possibilità di fare corse all’80%, nessuno ha impostato un’implementazione dei mezzi (magari utilizzando quelli privati fermi nei garage per il blocco di gite, crociere e tour turistici) e, contemporaneamente, a un piano di assunzioni. Anziché tornare a riempire i mezzi all’inverosimile si potevano distribuire meglio i passeggeri con un rafforzamento delle corse nelle cosiddette ore di punta. E non costringere Comuni e aziende locali a cambiare i piani in corsa posticipando gli orari di ingresso delle superiori alle 9 o al pomeriggio.
Le terapie intensive
Ma il vero punto dolente sono gli ospedali. Prima della pandemia abbiamo scoperto che in Italia avevamo solo 5.179 posti nelle terapie intensive. Così nel pieno della prima ondata è stata stilata una mappa del ’fabbisogno’ stabilendo tra le misure del decreto rilancio un incremento di 3.553 posti per arrivare a complessivi 8.732 posti. Ma quanti ne sono stati realizzati? Solo 1.449, portando il totale a 6.628 disponibili, oggi per il 15% occupati da pazienti Covid. Un’inezia se si pensa che oggi i ricoverati Covid nelle terapie intensive sono 1.049 (contro i 201 dello scorso 15 settembre), mentre i ricoverati con sintomi sono passati dai 2.222 del 15 settembre ai 10.549 di ieri.
I camici bianchi
Numeri che, ancora una volta, hanno costretto le aziende ospedaliere o le Asl a ridurre i posti letto negli ’altri’ reparti per far spazio ai pazienti Covid, con grandissimi disagi. Senza parlare degli screening saltati proprio a causa della pressione subita da ospedali e medici. Ah, dimenticavamo dove sono finiti tutti i camici bianchi e gli infermieri di cui nei mesi della prima ondata era stata annunciata l’assunzione?
Le responsabilità
Sì, è l’ora della responsabilità e saremo i primi a richiuderci nuovamente in casa, con quella disciplina diventata un modello per gli altri Paesi (chi l’avrebbe mai detto), ma la politica quando assumerà le sue responsabilità? Il tempo è tutto. Ma, come detto, non è infinito. Per tutti.