E’ una scelta spavalda chiedere a un ragazzo di diciotto anni di riscoprire il silenzio e farne il pilastro della sua maturità. Bravi, a chiunque sia venuto in mente. Bravi anche da parte di chi adesso si sta cimentando nella prova e se la gode come un topo davanti al formaggio o un monaco nella cattedrale dove non vola una mosca.
Il silenzio, diceva Che Guevara, è una discussione portata avanti con altri mezzi. Parafrasando, è una prova d’esame che può scorrere liscia dalla brutta alla bella, una passeggiata di salute in cui l’unico vero pericolo è slogarsi qualcosa sulla grammatica e la sintassi. O di ingolfarsi nella retorica, che però è peccato veniale. Con il silenzio nessuno corre il rischio di farsi male. Nemmeno l’adolescente appena uscito dal chiasso che gli appartiene per anagrafe e ubicazione, essendo l’adolescenza e la scuola tra i posti più rumorosi al mondo.
Me li vedo lì, davanti al suggerimento della giornalista Nicoletta Polla Mattiot, con mille idee che fanno baccano nella testa, perché se una cosa ha di bello il silenzio è che non ti lascia mai senza parole. O con il terrore del foglio bianco. E’ quasi un tema libero. Vuoi parlare di musica? Passa dal silenzio. Ti va di filosofeggiare sul caos contemporaneo e il bombardamento di informazioni, la difficoltà di concentrazione? Bordeggia il silenzio. Questo è un regalo, ragazzi, un carnevale di Rio. Prevedo un’inondazione di adesioni, un florilegio di buoni propositi contro il rumore, qualche mea culpa per eccesso di decibel provocati e subiti, la promessa di ritirarsi almeno per tutto il mese di luglio in una baita dove solo le capre hanno il diritto di dire “beeeh”. Poi ci sarà quello coraggioso che andrà fuori tema e parlerà del silenzio che non guarisce ma punisce, che fa male e consuma. Per questo ragazzo chiedo alla commissione indulgenza e un minuto di silenzio.