Strage sulle strade e dolore. Guardare qualcuno negli occhi e dargli la notizia che gli cambierà la vita per sempre: lui o lei non torneranno più a casa perché sono morti in un incidente. Come si riescono a pronunciare parole così? I poliziotti della Stradale sono i testimoni del passaggio dalla normalità al dolore devastante. Il campanello che suona di notte, quella divisa sulla porta, uno scambio di sguardi e la mente che ha già intuito ciò che ancora non sai. Nessun manuale prepara davvero. Ma Gianluca Romiti, comandante della Stradale di Udine, sa che per aiutare davvero le persone e non provocare altre vittime non bisogna compiere passi falsi, non bisogna sbagliare nulla. Dal tono alle parole ai gesti. "Perché – spiega – quel momento resterà fissato per sempre nella memoria delle famiglie".
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Comandante, come ci si prepara a una missione così?
"Fino al 2016 ci si affidava soprattutto al buonsenso e alla sensibilità dei poliziotti. Ma non bastava. Occorreva dare una base scientifica, così è nato il progetto Chirone".
Vi siete ispirati alla mitologia greca.
"Sì, Chirone è un centauro saggio e compassionevole. E la compassione in questi momenti è fondamentale. Il progetto è portato avanti con la facoltà di medicina e psicologia de La Sapienza".
Cosa bisogna evitare?
"Portare male la notizia del lutto causa ulteriori vittime, i familiari. Si provoca una ferita lacerante che durerà per tutta la vita. Se siamo bruschi, se siamo inadeguati, se non siamo comunicativi o se lo siamo troppo".
Impossibile prevedere le reazioni di chi apre la porta.
"Si resta sull’uscio per non essere invasivi, si chiede il permesso di entrare ma non si dice ancora nulla. È fondamentale far passare del tempo. Dare alla persona la possibilità di metabolizzare questa notizia che si intuisce".
Pianto e disperazione.
"Di fronte a questo noi dobbiamo restare forti, siamo lì per aiutare. Ci capita invece di abbracciare una persona, se ci accorgiamo che ha bisogno di questo. Lasciamo i nostri nomi di battesimo e il numero di cellulare. Perché il legame sia da un certo punto di vista inscindibile. Se facciamo bene tutto questo, evitiamo altre vittime. Quello è il momento che scandirà il passaggio da una vita a un’altra".
Minuti infiniti.
"La situazione è pesante, vorremmo scappare da lì ma dobbiamo rimanere per tutto il tempo utile alle famiglie".
E come si trovano le parole?
"Mai parlare di decesso, mai usare espressioni formali, fredde. Ma non bisogna nemmeno essere elusivi o generici. Semplicemente dobbiamo dire la verità. E c’è un altro aiuto prezioso per le famiglie, un progetto comune con le imprese assicuratrici, ‘Ania cares’. È partito a Milano, Roma, Firenze e Campobasso. Mette a disposizione un gruppo di psicologi".
Può capitare di dover avvisare la famiglia di un collega morto in servizio.
"L’ultimo ricordo è di un anno fa, Maurizio Tuscano è stato investito mentre era impegnato nei rilievi di un incidente stradale che era stato provocato da un automobilista in stato di ebbrezza. Quando capita, si è impreparati. Tutti noi sappiamo che potrebbe succedere ma in realtà scansiamo questa idea, altrimenti non andremmo neanche per strada".
Nessun addestramento può cancellare lo stress emotivo di un compito così pesante. Come lo gestite?
"Abbiamo due punti di riferimento, intanto i nostri psicologi, che fanno una grande attività di ascolto. E poi il gruppo dei pari, poliziotti che hanno fatto corsi particolari per poter parlare con i colleghi dei loro traumi. Per parlare al cuore".
Cosa resta, dopo? Il rapporto con le famiglie delle vittime si mantiene nel tempo?
"Si, può proseguire. A noi fa molto piacere. Bisogna aver cura di questo momento. Perché resterà fisso nella memoria per tutta la vita".
(3 – fine)