Brescia, 4 settembre 2024 – Finora è stato l’uomo del mistero. Di lui si sa che da anni vive in Svizzera, è cittadino elvetico. E risponde al nome di Franco Maria Muller. È Marco Toffaloni, ex ordinovista veronese oggi 67enne che la procura accusa dell’esecuzione della strage di piazza della Loggia – all’epoca aveva 16 anni –, a processo davanti al tribunale dei minori.
Più volte il presidente Federico Allegri aveva sollecitato il difensore, Marco Gallina, affinché lo convincesse a presentarsi in aula. Senza esito. Così ieri il giudice ha tagliato la testa al toro disponendo l’accompagnamento coattivo dell’imputato a Brescia. Vuole interrogare il presunto stragista, dunque ha dato mandato alle autorità elvetiche di rintracciarlo e accompagnarlo in tribunale.
Famiglia sfuggente
La decisione è giunta al termine di un’udienza dominata dalla deposizione della sorella maggiore di Toffaloni, Stefania, che più volte ha fatto alzare il sopracciglio al collegio. E dalla mancata comparizione del fratello, Paolo, risultato irrintracciabile: pare viva in un luogo sperduto sugli Appennini.
Il ritratto che la donna ha fatto di Marco Toffaloni stride fortemente con quanto riportato da altri testi, che lo avevano descritto come aggressivo e violento. Studente del liceo Fracastoro di Verona, incubatoio di neofascisti e dei protagonisti del sanguinario progetto “Ludwig”, seguace del filone esoterico dei Guerriglieri di Cristo Re e delle ronde pirogene antidemocratiche, non a caso nel giro dei neri era soprannominato “Tomaten” per i frequenti rossori in viso da accessi d’ira.
Invece a sentire Stefania il fratello era un bravo ragazzo, un primo della classe, equilibrato, di destra ma non estremista ("Mia sorella era di sinistra, all’epoca chi non era schierato?”).
Testimonianza “sorprendente”
Dove abiti l’imputato adesso la teste sostiene di non saperlo, e sarebbe all’oscuro pure del suo numero di telefono. “L’ultima volta che lo vidi era il 2015, in Svizzera. Al telefono mi chiamava lui, ma ora è parecchio tempo che non chiama”.
Quando il presidente ha invitato la donna a chiarire perché il fratello si comporti da uomo in fuga, lei mette le mani avanti: “È cauto solo per proteggerci”.
La famiglia Toffaloni, che stando agli atti frequentava al completo il poligono di Verona, 14enni compresi (“Mio padre ci portava a sparare solo perché era un cacciatore”), viveva a suo dire in un clima sereno, lontano dalla violenza degli anni ‘70.
L’alibi (che non è un alibi)
E i vicini Michela e Massimo Bianchi? Il loro padre aveva sentito dire dal padre dei Toffaloni che il figlio era coinvolto in “qualcosa di grosso, la bomba di Brescia”. Impossibile, ha tagliato corto Stefania: “il 28 maggio 1974 Marco, Paolo e mio papà alle 12,30 erano a pranzo, a casa. Quando sentì dalla TV della strage io stavo cucinando. Poi loro sono arrivati”.
Per la procura e le parti civili la circostanza non fornisce alcun alibi, considerando che l’attentato scattò alle 10,12 e Toffaloni avrebbe avuto il tempo di rincasare. La circostanza è comunque saltata fuori per la prima volta solo ieri. “Non l’ho riferita al colonnello Giraudo quando mi interrogò solo perché mi trattò male, insultò la mia famiglia facendomi chiudere”.