Firenze, 12 luglio 2024 – Ma che fine fanno i ricorsi ex articolo 35 bis presentati dai detenuti nel carcere di Sollicciano? Finiscono davanti alla magistratura di sorveglianza, che può accoglierli o meno. Può capitare però che le risposte date ai ristretti lascino qualche perplessità: “Con riferimento alla mancanza di acqua calda nel lavandino che si trova all’interno delle camere detentive, ritiene questo magistrato che la fornitura di acqua calda all’interno della cella non sia un diritto essenziale garantito al detenuto, ma una fornitura che si può pretendere solo in strutture alberghiere”.
Lo scrive il magistrato di sorveglianza Claudio Caretto nell’ordinanza in cui rigetta il ricorso ex 35 bis presentato da un detenuto di Sollicciano che lamenta le scarse condizioni strutturali e igieniche della cella e dell’intera sezione che lo accoglie. Eppure, l’articolo 7 del Regolamento di esecuzione penitenziaria (e non delle linee guida sull’attribuzione delle stelle agli hotel) dice che “i vani in cui sono collocati i servizi igienici” sono forniti di acqua corrente, calda e fredda. “Esiste una ampia giurisprudenza italiana e Cedu che afferma che la mancanza di acqua calda rappresenta il trattamento inumano e degradante e violazione dell’articolo 3 convenzione europea dei diritti dell’uomo”, dice a QN il filosofo del diritto Emilio Santoro.
“Le pareti della cella presentano macchie visibili di umidità e di muffa. Tali formazioni funginee sono causate dalle frequenti infiltrazioni d’acqua che, in caso di precipitazioni atmosferiche, aumentano considerevolmente”, scrive ancora il ristretto. La presenza di infiltrazioni di acqua e di muffa, scrive il detenuto, “è resa ancor più grave se si considera che l’impianto di riscaldamento non è sempre funzionante, anche a causa del costante sovraffollamento nel quale il carcere di Sollicciano versa. Anche quando l’impianto termo-idraulico è funzionante la cella è fredda”. Il detenuto lamenta anche di essere stato morso dalle cimici. Ma per il magistrato di sorveglianza si può tranquillamente sorvolare sulle lamentele. E perché? Perché l’amministrazione penitenziaria dice che è tutto a posto. E quindi, “stante la discordanza tra quanto dichiarato dal detenuto e quanto attestato dalla amministrazione penitenziaria, si deve tenere veritiera la versione fornita ala (sic, ndr) seconda in quanto proveniente da pubblico ufficiale e quindi fidefacente”.
In sostanza, se l’amministrazione penitenziaria dice che non ci sono problemi, allora deve essere tutto vero quello che dice l’amministrazione e falso quello che sostiene il detenuto. Anche sulla muffa presente in carcere.
La colpa, dice il magistrato di sorveglianza, è degli stessi ristretti: “Le muffe sono anche conseguenti all’uso dei fornellini da camping (da parte dei detenuti) che formano condensa”.
Eppure, osserva ancora Santoro, filosofo del diritto, “esiste ampia giurisprudenza italiana e Cedu anche sul fatto che l’amministrazione penitenziaria non può limitarsi a negare quanto sostenuto dal detenuto, ma deve dimostrare che è sbagliato, altrimenti il magistrato deve accogliere il ricorso”. Dunque, dice Santoro, “il provvedimento mostra che il dottor Caretto manca dell’umanità per capire che fare un rigetto del reclamo con quelle affermazioni a una persona che vive nelle condizioni descritte è un atto di crudeltà gratuita. Ma uno può solo sperare e non pretendere che il magistrato che lo giudica sia umano e non crudele. Invece può pretendere che conosca il diritto in questo caso l’articolo 7 del Regolamento di esecuzione e la giurisprudenza della Cedu, che è fonte normativa in Italia. Tanto è vero che l’articolo 35 ter dell’ordinamento penitenziario parla di violazione dell’articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, numero 848, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo”.