IL CERVELLO è duttile, si specializza, e quindi cambia in funzione degli stimoli che riceve, ma c’è il rischio che il percorso dell’evoluzione prenda a camminare in retromarcia. Lamberto Maffei, neurobiologo, vice presidente dell’Accademia dei Lincei, non nasconde la sua inquietudine.
Professore, l’uso (e l’abuso) di smartphone e simili sta cambiando il cervello delle nuove generazioni? «Il nostro cervello è plastico e si può certamente pensare a un cambiamento, visto che a certi stimoli se ne stanno sostituendo altri. È ancora presto per fare valutazioni sul cambiamento strutturale o funzionale del cervello, non esistendo a mia conoscenza studi specifici, ma la direzione a me sembra pericolosa».
Che cosa teme? «Quello che mi preoccupa è la solitudine indotta dall’uso dello smartphone, un isolamento che si traduce nel tramonto della conversazione, in una fuga della parola che sta portando un cambiamento con la freccia rivolta all’indietro, visto che l’evoluzione umana si è caratterizzata per l’uso della parola».
Ma i social network sono luoghi di comunicazione basati anche sulla parola. «Sì, ma non c’è contatto fisico e l’uomo è un animale che ha bisogno di comunicare faccia a faccia, toccando e interagendo con altri esseri umani. Negli Stati Uniti, secondo le ultime ricerche, un adolescente prende in mano lo smartphone almeno 220 volte al giorno, per un totale di sei-sette ore. Gli smartphone sono strumenti eccezionali, ma io, da studioso di neuroscienze, sono portato a vedere gli effetti collaterali: manca la comunicazione ‘animale’ e questo produce un isolamento, una perdita di stimoli e un abbandono della dimensione sociale, che può sfociare in patologie. Si stima che in Giappone vi siano due milioni di ragazzi che lasciano la scuola e si rifugiano nella rete, abbandonando le relazioni sociali; in Italia forse siamo a centomila, ma non ci sono dati attendibili. Al Gemelli di Roma però c’è un centro che lavora su queste patologie».
È possibile pensare a forme di prevenzione? «I più noti creativi della Silicon Valley – Steve Jobs e gli altri – impedivano o limitavano fortemente ai loro figli l’uso di questi strumenti, almeno fino all’adolescenza, perché capivano che l’educazione andava messa lungo un’altra linea. Nei primi anni di vita gli stimoli che arrivano tendono a imprimersi nel cervello; dai dieci-dodici anni il cervello è meno plastico e quindi gli effetti sono meno incisivi. La prevenzione dovrebbe prevedere una forte limitazione nell’uso di smartphone e simili fino all’adolescenza, ma sia la scuola, sia le famiglie sembrano orientati in un’altra direzione. I trentenni e quarantenni di oggi sono a loro volta dipendenti dagli strumenti digitali e sono spinti verso comportamenti che non poggiano più sulla relazione diretta fra persone. Forse sono un reazionario, ma considero questa tendenza molto pericolosa».
Ma si può davvero parlare di dipendenza? «Il pericolo è incombente. Quando si perde lo smartphone, è una disperazione, si corre a comprarne uno nuovo perché sembra impossibile vivere senza. È chiaro, in questi casi, che qualcosa è avvenuto nel cervello, come se lo strumento digitale avesse occupato dei neuroni, entrando come parte decisiva, operativa, nel nostro cervello. C’è il rischio di una simbiosi che potrebbe indurre una dipendenza cerebrale dallo strumento».
Elon Musk parla di una connessione fra cervello e computer... «L’idea dell’iniezione di microchip che diventano parte del cervello e ne influenzano il funzionamento, dal mio punto di vista di neurofisiologo, onestamente mi pare una baggianata. Qualcosa del genere esiste in medicina con le stimolazioni elettriche che possono intervenire su certe malattie come il Parkinson, ma un microchip che tocca certe parti del cervello per migliorare l’intelligenza? E perché non per creare mostri alla Frankstein? Diciamo che ipotesi e sviluppi vanno seguiti sulle riviste scientifiche, altrimenti sono dichiarazioni utili più alla curiosità che alla scienza».