"Posso imparare il teorema di Pitagora con un’app. Nell’insegnamento delle lingue straniere l’uso dello smartphone può portare benefici. Ma quando il suo utilizzo non ha obiettivi specifici e durante lo studio gli effetti sono più negativi che positivi". Marco Gui, sociologo dei media, è direttore del centro di ricerca ’Benessere digitale’ dell’università Milano-Bicocca.
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Come impatta lo smartphone sullo studio?
"Ha un potere di iperstimolazione e di distrazione molto elevato. E offre continuamente delle alternative più gratificanti nell’immediato, ostacolando il processo di concentrazione e l’utilizzo delle funzioni cognitive complesse".
Teniamolo fuori dall’aula?
"Sono stati fatti esperimenti sul bando del telefono a scuola: il più famoso, in Inghilterra, darebbe ragione alla preside del liceo Malpighi".
Che dice che non è una punizione, ma un regalo ad alunni e prof.
"Frase forte, ma che un fondamento lo ha: il regalo consiste nel dare la possibilità di vivere con pienezza di attenzioni molte situazioni scolastiche, a livello cognitivo e relazionale. C’è un problema di selezione degli stimoli. E più gli alunni sono piccoli e meno hanno la capacità di resistere alle ’tentazioni’ perché hanno meno risorse".
Quando introdurlo a scuola?
"Se c’è un obiettivo specifico. Alle superiori per attività di educazione civica digitale è sensato. Diverso il caso delle medie, età in cui gli smartphone arrivano, sempre prima. Anche se c’è una percentuale crescente di famiglie che preferisce aspettare e si pone il problema della digitalizzazione precoce, un po’ sottovalutato dalle scuole".
I ragazzi con lo smartphone sono più o meno bravi?
"Un report del mio centro di ricerca, ’L’età dello smartphone’, mostra che – anche a parità di istruzione della famiglia – la performance scolastica dei ragazzini che ricevono il telefonino a 9 anni o meno è inferiore rispetto a chi lo riceve dai 12 anni in su. Lo confermano studi internazionali. Altro dato: lo smartphone arriva prima tra le famiglie con minore istruzione, chi è più istruito è diventato più cauto. Mettere un ragazzino a far ricerche su internet significa lasciarlo in un ambiente che non è fatto per lui. Per i più grandi e all’università, dove non si può bandire, va fatta educazione alla gestione dell’attenzione".
Via i telefonini: restituiamo l’intervallo ai ragazzi?
"Il divieto fa paura, ma sono a favore di sperimentazioni di questo genere, cercando di non essere troppo estremisti. Troviamo spazi liberi dalla sovrastimolazione. Non è affatto una battaglia persa".