Roma, 20 giugno 2020 - E se non fosse così smart? La domanda sorge spontanea nell’era del Covid, quando fra la Fase 1 e la Fase 3 le persone che lavorano da casa sono passate da 570mila a 8 milioni. "Smart work significa lavoro intelligente, ma per diventare intelligente non è sufficiente che il lavoro venga svolto da casa anziché in presenza. Diventa intelligente se diventa il riflesso di un modo nuovo di gestire i processi produttivi", spiega Sebastiano Fadda, presidente dell’Inapp, ente pubblico di ricerca vigilato dal ministero del Lavoro. Insomma, al di là dei giudizi entusiastici e della facile retorica sui vantaggi di chi non deve andare in ufficio non tutto fila per il verso giusto. Il giudizio più tranciante lo ha dato il giuslavorista, Piero Ichino che se l’è presa soprattutto con gli statali: "Lo smart working, in molti casi, si è trasformato in una vacanza retribuita al 100%". Una provocazione. Ma anche un modo per sottolineare non solo le opportunità, ma anche i problemi.
Prima di tutto, il distanziamento sociale, che fa venire meno l’interazione, lo scambio di idee, la contaminazione delle esperienze, tutto quello cioè che rende il luogo di lavoro un ambiente creativo e vitale. Non basta. Fra le mura domestiche cade, infatti, ogni barriera fra vita personale e quella professionale. L’occhio della web cam scruta gli ambienti casalinghi, anche quelli che meno si prestano a un’attività lavorativa. Per il 56% delle imprese coinvolte in un’indagine sul campo condotta da ‘The Innovation Group’, al primo posto fra gli ostacoli da superare per lo smart working ci sono "i problemi delle persone legati a isolamento e al contesto difficile".
Un’azienda su due, poi, ha rilevato maggiore difficoltà "nella gestione delle persone e nella panificazione delle attività". Sì, perché l’altra grande questione è strettamente legata all’orario di lavoro. "Viene meno la possibilità di misurare la quantità di lavoro offerta sulla base del tempo", spiega Ichino. Un tempo che si allunga all’infinito, e non sempre in maniera produttiva. I rischi sono evidenti. "La riorganizzazione del lavoro richiede adeguate competenze anche dal lato degli imprenditori e dei manager, non sempre propensi all’innovazione e capaci di reingegnerizzare i processi rispettando la dignità dei lavoratori – spiega Fadda – le nuove tecnologie e il lavoro a distanza potrebbero consentire di prolungare senza limiti gli orari di lavoro".
Ci sono poi gli altri problemi che rendono difficile lo smart working: dalla connessione Internet, non sempre efficace e disponibile a quelli sulla sicurezza dei dati. Nella pubblica amministrazione tutto questo ha determinato un aumento dei tempi di attesa per un provvedimento o un’autorizzazione anche del 30%. Tito Boeri, ex presidente dell’Inps, sottolinea proprio la necessità di misurare i risultati per non avere "effetti negativi sulla produttività". Il dibattito è aperto: i dirigenti e i manager vorrebbero una misurazione individuale, i sindacati ne chiedono una collettiva. Infine c’è tutto il tema delle diseguaglianze. Non tutti i lavori possono essere fatti a distanza. E, in particolare, sono spesso quelli meno retribuiti e più ‘umili’ che hanno la necessità della presenza fisica. Lo smart working, insomma, per diventare davvero intelligente, presuppone una rivoluzione culturale. Altrimenti rischia di trasformarsi in un vero e proprio boomerang.