Raffaele
Marmo
Non ci sono solo le "grandi dimissioni" o addirittura la drastica perdita di appeal del "posto fisso" (anche pubblico), se per conquistarlo ci si deve spostare da Sud a Nord. I due anni e oltre di pandemia sembrano avere radicalmente cambiato l’approccio al lavoro. Almeno a scorrere i dati di una aggiornata indagine della Fondazione Studi dei Consulenti del lavoro, realizzata in collaborazione con Swg, più della metà dei lavoratori italiani (55%) desidera una nuova occupazione perché insoddisfatta di quella attuale (per la retribuzione, il contenuto dell’attività o l’equilibrio con la vita privata) e il 15% si è attivato per cercarla.
È la sindrome ribattezzata "Yolo", acronimo di "you only live once" (si vive una volta sola), e coloro che la avvertono hanno già un nome: "intenders", per indicare l’intenzione di cambiare impiego come chiave di volta del fenomeno. Ma, in questa voglia di cambiare vita, non c’è solo una sorta di "effetto post traumatico", come è stato messo in rilievo in più occasioni.
A spingere il vento del cambiamento, oltre all’insoddisfazione, è altrettanto vistosa, almeno per il 49 per cento degli italiani, l’indicazione, tra i requisiti irrinunciabili della nuova occupazione, di un maggiore equilibrio personale, livelli minori di stress e più tempo da dedicare a se stessi.
Tutti obiettivi per i quali ha giocato un ruolo decisivo lo smart working. Tant’è che oggi ben l’84,2 per cento dei lavoratori "agili" promuove a pieni voti il modello, considerandolo una sorta di benchmark per stabilire il grado di accettabilitàsoddisfazione di una possibile, nuova attività. Il 31,8% degli italiani non accetterebbe di tornare a lavorare in presenza, il 16,9% cambierebbe lavoro, se fosse costretto a farlo, e il 9,3% potrebbe addirittura licenziarsi. A condizione – vale la pensa, però, aggiungere – che i risultati siano misurabili. E che gli uffici non siano chiusi per smart working.