Roma, 25 marzo 2024 – Il rogo ucraino e l’aggressività russa si sono trasformate in una lezione per l’Europa, la quale sta cominciando a comprendere che la politica della difesa comune tra Paesi membri va allestita dal punto di vista dei sistemi d’arma, degli investimenti e dell’organizzazione. Più cooperazione e spese razionalizzate. Ce lo suggerisce lo scenario di guerra ucraino, premono i Paesi baltici e la Polonia che si sentono esposti a imprevedibili mosse di Mosca, lo fa pensare l’atteggiamento degli Usa che in caso di vittoria di Donald Trump non è detto continuino nell’assistenza militare come oggi.
Circola una preoccupazione ricorrente negli ultimi rapporti annuali dei servizi segreti dei principali Paesi Ue: "La Russia, se avrà campo libero, non si fermerà in Ucraina. Si sta preparando a una guerra lunga con l’Occidente". Sono in tensione i Baltici, Polonia, i neo-soci del club della Nato, Finlandia e Svezia. Forse per la prima volta in alcuni documenti ufficiali a Bruxelles si parla di "prepararsi a un’emergenza militare". Su questo aspetto è in arrivo un rapporto destinato alla presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, la quale ha promesso che se sarà rieletta istituirà un commissario per la Difesa, premendo sul fatto che l’Europa deve aumentare le spese militari.
Le grandi manovre sono cominciate. Secondo una ricerca Ispi "nell’Ue l’industria bellica ha raggiunto nel 2022 un fatturato di 135 miliardi di euro (+10%) e ha impiegato circa 516mila persone (+4%). Tuttavia, nessuna azienda di un Paese Ue compare nella classifica delle 10 più grandi per fatturato a livello mondiale". Anche qui, dunque, è d’obbligo una riflessione perché se servono armamenti, servono anche aziende tecnologicamente avanzate per produrli. Troppi sistemi sono acquistati fuori dall’Ue e in ordine sparso.
L’italiana Leonardo è la prima impresa europea nell’industria della difesa e si posiziona solo all’11° posto con un fatturato 2022 di 12,9 miliardi di dollari. E servono armamenti comuni perché non si possono avere 3-4 tipi di mezzi blindati diversi e filosofie difensive differenti tra Paesi membri. L’intenzione è arrivare entro il 2030 a far sì che i Paesi Ue appaltino in comune il 40% dell’equipaggiamento. E nella Difesa ognuno deve arrivare a destinare il 2% del Pil.
L’Italia dopo anni di tentennamenti ha previsto un piano di robusti investimenti interni dal 2024 al 2029. "Il mondo è cambiato e cambia anche il nostro modello di difesa – spiega il generale Antonio Li Gobbi, già direttore delle operazioni presso lo Stato Maggiore della Nato a Bruxelles – e l’Italia deve rinforzare alcuni aspetti. Fino al 2014 si è puntato su un modulo di proiezioni rapide con forze ridotte e flessibili. Oggi come vediamo in Ucraina è da mettere in conto anche un possibile scontro sul terreno con forte capacità di fuoco. È necessario arruolare più giovani, più impiegabili sul campo e con ferme brevi, anche di 9-10 anni. Con la garanzia di veicolare poi chi esce verso altre occupazioni. Oggi abbiamo in servizio circa 100mila uomini. Il numero va aumentato".
Poi c’è il nodo degli equipaggiamenti d’arma. Ancora Li Gobbi: "Bisogna puntare sull’aumento di forze corazzate, artiglieria, difesa aerea. Tutto ciò senza dimenticare la tecnologia di ultima generazione come i sistemi aerei a guida remota, i sistemi di intercettazione. L’Italia ha già allestito anche una scuola di formazione per la guida dei droni, che oggi come si vede nei teatri bellici, sono fondamentali per la ricognizione e l’attacco". In Italia l’aumento della spesa militare è trainato da un bilancio del ministero della Difesa che supera per la prima volta i 29 miliardi di euro (+5,1% rispetto al 2023).