Rigopiano (Pescara), 4 novembre 2024 - Un ticket da 40 euro a una mamma di Rigopiano. Elma Ma Lai Wah, madre di Marco Tanda – tra le 29 vittime del resort travolto da una valanga sul Gran Sasso d’Abruzzo, era il 18 gennaio 2017- il giorno dopo in ospedale a Penne (Pescara) si era sentita male, quando aveva intuito che quell’attesa angosciante di notizie nascondeva una tragedia.
Era stata soccorsa e ora, sette anni dopo, implacabile, l’Asl di Pescara le ha inviato per raccomandata una diffida al pagamento del ticket. Sono 40,97 euro, il dolore di una vita non è contabilizzato, 4,82 euro per spese di spedizione. Ecco la data della ‘prestazione’, 19 gennaio 2017. E come può dimenticarla? Quel giorno questa mamma ha capito che non c’era più nulla da fare.
“Tutto è successo quando ci hanno chiesto di riempire un questionario - ricorda al telefono con Quotidiano.net il figlio Gianluca Tanda, che è anche presidente del Comitato vittime di Rigopiano -. Hanno cominciato a chiedere: cosa indossava? Aveva tatuaggi o segni particolari? Ascoltavamo senza capire, frastornati, a Penne era il caos, l’apocalisse. Mi chiedevo: a cosa servono questi dettagli, perché lo vogliono sapere?”. Poi quella risposta che ti schianta, “è una prassi, se trovano un corpo senza documenti...”. “Lì - si emoziona Gianluca Tanda - abbiamo capito che Marco poteva essere morto”.
Sua madre Elma si è sentita male.
“Dopo un quarto d’ora che stava su quelle poltroncine ha cominciato ad avere attacchi d’ansia, le mancava il respiro, aveva la tachicardia. L’hanno portata nell’altra stanza, al pronto soccorso, ma è finito tutto lì. Il paradosso è che lei non è andata all’ospedale perché stava male”.
Suo fratello è morto a Rigopiano con la fidanzata Jessica Tinari, che aveva un anno meno di lui.
“Alla camera ardente quando mamma lo ha visto diceva, cosa ti hanno fatto... Ma subito dopo: guarda come sei bello, sembra che dormi. La mamma di Jessica ha avuto la stessa reazione. Non volevano vedere i segni di quel che era successo”.
Sua madre in questi sette anni è sempre rimasta in disparte.
“E l’altro giorno è arrivata da me con gli occhi gonfi di lacrime, le tremava la voce, quasi si sentiva in colpa per quella raccomandata. Si è sentita male un’altra volta. Abbiamo rivissuto quei giorni angoscianti, un inferno”.
Il direttore generale della Asl di Pescara si è scusato e si è offerto di pagare.
“Sì, lo ringrazio. Ma la dottoressa quel giorno doveva agire diversamente. Questo ticket non doveva mai arrivare. In questa strage hanno commesso una valanga di errori, e uso questa parola non a caso. Quella cartella dev’essere annullata. O la pagherò io”.
Lei come ha reagito?
“Ho provato una grande rabbia. Come quando abbiamo scoperto che avevano tenuto nascoste le telefonate con le richieste di aiuto, le chiamate di Gabriele D’Angelo”.
Quei giorni tra Penne e Pescara.
“Una settimana angosciante, 24 ore al giorno all’ospedale, in attesa che qualcuno ci dicesse qualcosa. Comunicazioni di pochi minuti, magari sbagliate”.
Come quando l’ex prefetto Provolo ha fatto leggere alla funzionaria un elenco che dava Stefano Feniello vivo, invece era morto.
“Venivano a rassicurarci, era un caos. Quando ci hanno comunicato che c’erano 11 scampati, che li avrebbero portati all’ospedale di Pescara, tutti noi familiari da Penne ci siamo precipitati là. Una corsa per arrivare primi”.
I sommersi e i salvati.
“Abbiamo sempre detto che è stata una lotteria. Chiaro che al nome di chi si era salvato c’erano scene di esultanza. Mentre gli altri rimanevano in un’attesa angosciosa. Ma faceva rabbrividire quando dicevano, ‘abbiamo trovato due vittime, uno di sesso maschile e una di sesso femminile’. Ti chiedevi: ci sarà anche lui?”.
Eravate tutti nell’aula magna dell’ospedale.
“Ogni famiglia aveva il suo spazio, e lo occupava 24 ore al giorno. Poi c’era il ‘miglio verde’. Vedevi che si avvicinava un gruppo di persone, sulla divisa la scritta psicologo. Prendevano da parte una famiglia e la portavano su una porta che si apriva su un lungo corridoio. Da quel momento in poi non vedevi più quella famiglia, lo spazio nell’aula magna all’improvviso era vuoto. Quella porta per me era come la porta dell’inferno”.
Come avete saputo?
“Un giorno si sono avvicinati, ero convinto che mi chiedessero di qualcun altro. Invece quell’altro ero io. Mi hanno portato davanti alla porta dell’inferno. Mi sono detto, oddio tocca a me. Poche parole, “ti vuole parlare un attimo la dottoressa”. Non posso dimenticarmi questo corridoio che non finiva mai. C’era un capitano dei carabinieri, l’ho incontrato tante volte anche dopo. Piangeva, ‘purtroppo suo fratello è stato trovato morto’. Mi hanno consegnato la sua collanina, che ancora porta mamma, e il portachiavi della macchina di Marco, con un Paperino. Ripetevo, non può essere. Ma era tutto vero. Era l’inferno”.