Roma, 2 dicembre 2024 - Ma cosa nasce tra un salvato e un salvatore? Tra un soccorritore e “L’ultimo sopravvissuto di Rigopiano”, come s’intitola il libro di Giampaolo Matrone, scampato alla morte nella strage del resort sul Gran Sasso, domani è attesa la sentenza in Cassazione per quella tragedia che, continuano a ripetere le famiglie delle vittime, non è stata colpa della natura.
Nel libro, una cronaca delle 62 ore vissute in quella prigione di ghiaccio, il superstite racconta il momento emozionante di quando ha sentito pronunciare il suo nome, “probabilmente è la voce di Dio”, scrive. No, era quella di Rubino De Paolis del Soccorso alpino abruzzese, protagonista con i vigili del fuoco di un salvataggio miracoloso.
“Fabio, il Vigile che è con noi, nel muoversi calpesta alcune tegole e G. urla che ha sentito muoversi qualcosa, è quello che aspettavamo, la certezza che stavamo scavando nella giusta direzione. Rimuoviamo quella porzione di tetto e in mezzo a quel casino intravediamo un Moon Boot, lo tocco con cautela e sento che si muove, G. urla che gli sto toccando un piede, vedo la sua mano, mi allungo e gliela stringo, lui ricambia la stretta quasi a volermi rassicurare, sento nuovamente quel nodo alla gola. Le ore successive saranno un susseguirsi di decisioni e di operazioni delicatissime atte a permettere l’estricazione del sopravvissuto senza comprometterne ulteriormente lo stato di salute, finalmente alle sei, dopo oltre sette ore di lavoro frenetico, lo tiriamo fuori tra gli applausi e i complimenti di tutti gli astanti”.
Questo aveva scritto de Paolis su Facebook nel gennaio gennaio 2017. Lo abbiamo raggiunto al telefono.
De Paolis, le sono mai capitati altri casi come quello di Matrone?
“No, mai. Resistere per 62 ore in quelle condizioni proibitive richiede una resistenza fisica e mentale incredibile. Prima di Rigopiano ero intervenuto ad Accumuli, per il terremoto. Ma non è la stessa cosa”. Il video del salvataggio mostra Matrone in una posizione incredibile.
“La testa ripiegata, il braccio destro all’altezza del viso, incastrato sotto una trave, la gamba sinistra ripiegata, il piede era quasi all’altezza della spalla sinistra”.
Lei gli ha detto quella bugia necessaria, ‘Valentina è viva’, riferendosi alla moglie che invece a Rigopiano è morta.
“Non è stata la sola bugia. Anche quando abbiamo spostato i poveri corpi di tre persone che non ce l’avevano fatta non glielo abbiamo detto. Erano vicino a lui”.
Una notte di lavoro.
“Dalle sei alle otto ore. Era l’alba quando lo abbiamo tirato fuori”.
Mai avuto dubbi di non farcela?
“Ho temuto che Giampaolo non riuscisse a tenersi su. Perché ho capito che ci sarebbe voluto tanto tempo. E invece, quando senti la prima voce di un soccorritore, ti prende la smania”.
Come ci si prepara a un intervento del genere?
“La preparazione è molto soggettiva, non è specifica. Sei abituato a intervenire in una valanga, in una parete. Ma lì, a Rigopiano, era tutto diverso”.
Otto ore sono tante, come si riesce a mantenere viva la speranza di chi attende il salvataggio?
“Ci si immedesima, bisogna provare a immaginare che cosa si voglia sentir dire”.
C’è l’eroismo dei soccorritori e c’è il tema della giustizia. Il processo è arrivato in Cassazione. Ha seguito la vicenda giudiziaria?
"No, mi sono volutamente tenuto fuori. Ho però il mio giudizio su questa
storia. Sono convinto che ci sia mai la responsabilità di un singolo. A Rigopiano si è verificata una concomitanza di errori".
Pochi giorni dopo, la morte di tre suoi colleghi.
"Il 24 gennaio un elicottero del Soccorso alpino è precipitato a Campo Felice. Mario era il tecnico vericellista che aveva fatto la spola da Rigopiano. Davide era in buca con me, Walter, medico, era salito quella notte stessa della valanga, con gli sci. Tre amici, indimenticabili”.