Pescara, 24 novembred 2017 - Giuly Damiani, 30 anni, di Farindola. Nella strage ha perso il suo fidanzato, Gabriele D’Angelo. Aveva 32 anni, faceva il cameriere all’hotel Rigopiano, era volontario della Croce Rossa a Penne, il suo paese. Non aveva ferite, ha stabilito l’autopsia. «Proprio per questo abbiamo sempre pensato che poteva essere salvato. Provo una grande rabbia. Si deve andare a fondo, si deve fare giustizia. Chi ha responsabilità anche dei ritardi deve pagare».
L’8 novembre come familiari delle vittime avete manifestato sotto la prefettura di Pescara, avete incontrato Provolo. Oggi è indagato. «Me l’aspettavo da quando ho saputo che è stato spostato. Noi quel giorno volevamo dire: vi state rendendo conto di quel che è successo? Perché sembra che tutto scivoli, come se la morte di 29 persone fosse una cosa naturale. Okkey sì è successa, pazienza. No».
Cosa si aspetta, ora? «Certo, per com’è fatto questo Paese... Ma spero con tutto il cuore che sia fatta luce, che esca la verità. Chi sta ancora sulle poltrone, prende in giro non solo noi ma tutta l’Italia».
Chiedete le dimissioni. «Assolutamente sì. Già le avrebbero dovute dare. Forse ad essere puniti saranno i più deboli. Chi avrà le spalle forti se la scamperà».
L’ultimo ricordo di Gabriele. «Ci siamo sentiti quello stesso pomeriggio del 18 gennaio, erano le tre e mezzo. Mi ha chiamato su WhatsApp, l’unico modo per comunicare. L’ho sentito preoccupato, proprio lui abituato a tranquillizzare sempre tutti».
Cosa le ha detto? «Mi ha chiesto aiuto, ‘per favore vai in Comune a Farindola, ci devono mandare una turbina per pulire la strada. La situazione è insostenibile. I clienti sono impauriti, non riusciamo più a tenerli. E anche noi vogliamo andare via’. Il suo tono di voce mi ha davvero colpito».
Quella mattina c’erano state anche le scosse di terremoto. «Gli stessi dipendenti volevano scendere, se ne volevano andare. Gabriele me lo aveva già scritto per messaggio. Me l’ha ripetuto al telefono».
Ha provato ad aiutarlo. «Mi sono precipitata in Comune a chiedere aiuto, non era da lui essere così. Per questo stavo in ansia, non era un atteggiamento normale».
In Municipio c’era il Coc, il centro operativo. «Non ho trovato nessuno. Poi ho incontrato alcune persone davanti al bar, c’era anche un tecnico comunale».
Quindi ha chiesto di mandare i mezzi. «Mi hanno risposto che non c’erano turbine disponibili, che sarebbero partite forse in serata, sicuramente l’indomani mattina. Ho richiamato Gabriele, ho cercato di tranquillizzarlo. Gli ho detto, vedrai, domani vi liberano. Dicevo così ma non ero convinta».
Lei lavorava ancora a Rigopiano a marzo 2015, quando l’hotel rimase isolato tre giorni. «Ero alla reception, abbiamo avuto paura soprattutto per i bambini. E poi: se qualcuno si sentiva male? Ma quella volta è finita bene».
La rabbia, oggi. «Cerco di andare avanti, di impegnarmi nel lavoro. Ma la mia vita è cambiata, è cambiato il mio futuro. Io e Gabriele dovevamo sposarci l’anno prossimo, stavamo insieme da quattro anni e mezzo».
Com’era lui? «Un altruista. Sempre pronto e disponibile ad aiutare gli altri. Ottimista e positivo. Mai visto arrabbiato. A Rigopiano si trovava bene, era come una famiglia. Il canalone? Nessuno di noi se n’era mai accolto».