Mercoledì 17 Luglio 2024
GIGI PAOLI, inviato
Cronaca

Nel limbo di Ventimiglia. I bivacchi nel letto del fiume e le lacrime dei migranti: "Vogliamo lasciare l’Italia"

Il réportage. La gendarmeria francese ogni giorno rispedisce oltre confine 180-200 persone. Il paese è stremato: appena farà freddo torneranno a sfondare i portoni per trovare un po’ di caldo

Ventimiglia (Imperia), 21 settembre 2023 – “No money, no shoes". E piange. E diluvia. E le sue lacrime si mescolano a gocce di pioggia grandi come canne di bicicletta che impregnano i calzini di spugna blu. E le sue infradito affondano nel fango.

Tuoni e fulmini su Ventimiglia, una giornata da incubo dove anche il meteo, nella costa dove perfino il sole si ferma alla frontiera (ve lo giuro, a Mentone spaccava le pietre), decide che no, non c’è un solo, maledetto motivo per sorridere, neanche il bel tempo. E allora qui, sotto il lungo cavalcavia che collega l’uscita dell’autostrada al centro di Ventimiglia, sull’argine del fiume Roja, la pietà è morta, la civiltà è morta, il diritto di avere una vita dignitosa è morto e anche tu, che guardi i disperati che viaggiano sull’ultimo vagone del treno della vita, cominci a sentirti poco bene.

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Perché non è umano tutto questo, non si possono sospendere le vite di decine, centinaia di persone, uomini, donne e bambini (sì, ho visto anche bambini), che vedono trasformata la loro vita in un pendolo, tra fango, pietre, rifiuti, merda e chissà cos’altro. Perché la vita di questa gente è proprio come un pendolo che oscilla fra un’Italia dove non vogliono stare, e che li spinge altrove, e la Francia che non li vuole e li rimanda indietro. E loro sono nel mezzo, schiacciati.

"Cinque volte io provato a passare, niente. Ma riprovo stanotte, sì sì, io vado England, là amici", racconta Tlal, con un sorriso insensato, un traguardo assai improbabile e imbacuccato in un giubbotto di tre taglie più grande. Dice di avere 24 anni e, anche lui, di venire dal Sudan, dopo un giro largo iniziato a Lampedusa, proseguito a Milano e ora qui. Che poi, il Sudan, pare una novella imparata a memoria da molti, perché là c’è una guerra vera, dichiarata, non sottile e silenziosa come questa qui. E guerra vera vuol dire rifugiati veri, asilo, speranza. E alfine, una casa, vera.

Le vittime delle guerre, vere o no, con proiettili o no, sono però uguali ovunque e, in questo caso, se le porta via anche il fiume. Come quella volta, qualche anno fa, che in Liguria ci fu l’alluvione e la Roja sfondò quegli stessi argini che, allora come oggi, davano e danno rifugio ai disperati. Il fiume se ne portò via undici, senza nome, senza un addio, senza una lacrima, nel sonno. Undici che magari erano sopravvissuti al Mediterraneo per poi morire nel collo di bottiglia dell’Europa chiamato Ventimiglia.

Si avvicina Youssef, dice di avere 28 anni e di venire dall’Egitto. Trascina un trolley e si guarda intorno spaurito, in questo piazzale lunare che un muretto e una rete sbertucciati dividono dal greto del fiume. C’è un furgoncino, una sorta di ambulanza di prima assistenza gestita da due ragazze inglesi che non vogliono dire neppure a che ong appartengono.

"No money, no shoes", piange Buoy Marol (sì, il nome è strano, non so nemmeno se è giusto, ma se l’è scritto da sé), 24 anni, sudanese che sa due parole d’inglese e piange sotto la pioggia in infradito. Dice di essere andato via da casa per la war , la guerra, che era uno studente, è solo, vuole andare in Francia e stanotte, più tardi, proverà a passare il confine attraverso i boschi. Con le infradito. Già, perché "no money, no shoes". E allora, di nascosto, lo chiamo da una parte e gli allungo una banconota: "Shoes", gli dico fissandolo negli occhi per illudermi e non immaginare che quei soldi finiranno nelle mani di un passeur, quando farà buio e ci sarà da pagare il biglietto per un’altra partita a guardie e ladri con la polizia francese nei boschi.

Lui però sorride e sembra davvero sincero, o è il mio senso di colpa che me lo fa apparire tale e che mi spinge a comprare venti pacchi di patatine e una torta nel bar di fronte. Poco, niente, ma che nel piazzale, poco dopo, quegli stessi ragazzi mi strapperanno letteralmente di mano, con la fame orribile di chi ha proprio la fame come perenne compagna di vita. Mi resta solo un pacchetto di patatine, che volevo dare a Buoy. Ma Buoy non c’è, spero sia andato a comprarsi le scarpe. E ti resta addosso la sensazione, orribile, di star svuotando il mare con un secchiello.

"Li vede? – mi dice una signora che parcheggia l’auto nel piazzale accanto al fiume –. È povera gente, nessuno si occupa di loro, nessuno viene a pulire questa zona e le nostre figlie non possono uscire da sola la sera. E appena arriverà l’inverno, ricominceranno a rompere i portoni dei nostri condomini per rifugiarsi lì dal freddo. Non possiamo vivere così".

Che è lo stesso, identico pensiero di Flavio Di Muro, sindaco leghista in sella da tre mesi, che ha accolto con sollievo, per non dire proprio gioia, l’idea del ministro Piantedosi di fare un Cpr qui: "La gente ha paura, rischiamo di diventare la Lampedusa del nord" dice nel suo ufficio in Comune, ora come ora, forse, la sedia più scomoda d’Italia. "Le parole di Piantedosi – scandisce – dimostrano che Ventimiglia è al centro dell’azione del governo". Sui Cpr non ha dubbi: "C’è chi si oppone, ok, ma io dove metto tutta questa gente in una città spaventata di 25mila abitanti? Qui il dibattito mediatico nazionale si scontra con la realtà dei fatti, con il 70 per cento dei migranti che è irregolare, e molti dei quali delinquono. La Francia ci manda indietro almeno 180 dei 200 migranti che arrivano ogni giorno alla frontiera. Secondo lei, quanto ancora possiamo andare avanti?".

Esco dal Comune, diluvia in modo impressionante. L’inverno sta arrivando. Spero che Buoy abbia almeno comprato le scarpe.