Roma, 16 ottobre 2017 - Che quell’uomo fosse più che un prete per lui e sua madre lo sospettava fin da bambino. Attenzioni e dolcezze raccontavano di un legame viscerale che andava oltre il ministero sacerdotale. «Poi, una mattina, avevo 28 anni, mentre rovistavo fra le carte di casa, ho trovato una cartella piena di poesie scritte da lui. Quei versi nei toni erano così simili a quelli che componevo io. È stato come se fosse ancora lì vicino a me. ‘Padre John era il mio papà?’, chiesi a quel punto a mia mamma. Le scese una lacrima dagli occhi, era la verità. Quel giorno sarebbe stato il compleanno del mio babbo. Morì nel 1995, io ero dodicenne».
Oggi Vincent Doyle di anni ne ha 34, è un brillante psicoterapeuta irlandese e soprattutto è il fondatore e l’anima di Coping international (Coping sta per Children of priests), un’associazione internazionale, riconosciuta dalla Chiesa, nata per offrire supporto psicologico e spirituale ai figli di sacerdoti. Proprio come Doyle, il cui papà biologico si chiamava padre John J. Doyle, parroco di Longford, un paesino nella diocesi di Ardagh.
Che cosa ha provato quando ha saputo chi era il suo vero genitore?
«Ho avvertito come una sensazione di sollievo. Ho sempre pensato che padre John fosse il mio papà biologico e che qualcosa mi fosse stato nascosto. I bambini possono dedurre la verità dalla menzogna senza che sia detto loro nulla, oppure, senza nemmeno rendersene conto, sospettano che qualcosa non sia giusto o come sembra».
Negli anni ha dovuto fare i conti con la rabbia verso suo papà e sua mamma che gli hanno nascosto la realtà delle cose?
«No, mai. Sapevo che le difficoltà che avrei potuto sperimentare, non erano colpa loro. Avendo studiato Filosofia, ciò che mi è venuto in mente è il principio di ‘causa ed effetto’, coniato da David Hume. Ho esaminato la ragione della segretezza, il motivo del perché era necessaria nella mia vicenda. Mi sono chiesto: questo segreto era un’esclusiva di mio padre o anche altri preti l’hanno sperimentato per i loro figli? Non aveva senso che mio papà fosse l’unico sacerdote ad avere dei bambini, così come non era possibile che fosse il solo presbitero a mantenere in segreto la sua famiglia».
In questi casi la Chiesa tende a preservare la propria reputazione, a evitare lo scandalo?
«La ragione collettiva per questi segreti è la protezione dell’immagine incontaminata del sacerdote, il sacrificio del celibato non deve essere inquinato. Sapevo che esisteva un motivo al di là dei miei genitori. Loro sono stati intrappolati in tutto questo, proprio come me».
Che rapporto ha avuto con suo papà?
«Sono cresciuto con mia mamma e il mio patrigno, persone buone e dolci. Padre Doyle era il mio padrino. Con lui ho trascorso fine settimana e vacanze. Sono stato benedetto per questo. Oggi mi manca ogni giorno. È morto rimanendo fino alla fine sacerdote. Sapeva che non poteva essere mio papà pubblicamente, ma ha fatto tutto il possibile per mantenere mia madre e me. Voleva essere parte della mia vita. Questo è un aspetto che solleva un problema importante».
A che cosa allude?
«Il cardinale Sean O’Malley, tra i prelati più vicini a papa Francesco, ha dichiarato: ‘Se un prete mette al mondo un bambino, ha l’obbligo morale di lasciare il ministero e provvedere alla cura e alle esigenze della madre e del piccolo. In una simile evenienza, il loro benessere è la priorità’. Le sue affermazioni suscitano non pochi interrogativi. In che modo gli ex preti si aspettano di crescere una famiglia? Che lavoro potrebbero svolgere una volta che sono stati ordinati 15 anni prima, come nel caso di mio papà? Che cosa può attendersi un uomo di mezz’età?».
Non sono domande facili.
«La Chiesa dice che la priorità suprema coincide col benessere della mamma e del bambino, ma, se stanno così le cose, nella pratica aiuta poi il sacerdote-papà nel suo ritorno al laicato? Se non lo fa, come conseguenza diretta, il figlio del prete rischia di soffrire, perché il padre non è in grado di sostenerlo, finanziariamente, psicologicamente e in altri modi».
Lei ha incontrato il Papa nel 2014, gli ha parlato del problema dei figli dei preti?
«Gli ho raccontato la mia esperienza personale e gli ho esposto le difficoltà per un bambino nell’affrontare il segreto di un papà sacerdote, perché si tratta di un nascondimento calibrato sulle esigenze degli adulti, non dei più piccoli. Gli ho ricordato che lui aveva trattato questo tema da cardinale nel 2010, specificando che ‘i diritti naturali del bimbo vengono prima di quelli del prete’. Infine gli ho consegnato una lettera e lui mi ha promesso che l’avrebbe letta. Alcuni mesi più tardi dal Vaticano mi è arrivata una risposta con gli apprezzamenti del Pontefice per i sentimenti di carità che motivano le mie iniziative e con un suo ricordo nella preghiera».
Crede che sia doveroso per un presbitero-padre lasciare il ministero o pensa che sia possibile coniugare paternità e servizio sacerdotale, nonostante il vigente obbligo di celibato per i preti in Occidente?
«Essere un sacerdote non è in contrasto con l’essere un papá biologico. Un prete cattolico può essere un buon padre. Il rito latino della Chiesa cattolica è l’unico che prevede il celibato obbligatorio. Per i maroniti, ad esempio, il discorso è diverso. La questione dovrebbe essere un’altra: è possibile che in tutta la cattolicità occidentale resti vigente il no ai presbiteri-sposati in tutti i tempi e dappertutto? La risposta è no. L’esistenza di un figlio di un sacerdote lo dimostra».