Dieci anni non bastano per fare il bilancio d’un papato. Come dimostra il finale dei pontificati recenti, la conclusione di un regno si carica sovente di colpi di reni (dalla Pacem in terris di Giovanni XXIII alla Declaratio di rinuncia di Benedetto XVI): ma un decennio disegna nitide le parole-chiave di papa Bergoglio. Ne elenco alcune.
Giustizia(lismo)
Il disordine che ha travolto Ratzinger è stato uno dei mandati del conclave; Francesco ha risposto, al di là della riforma della curia, con la risurrezione di forme e strumenti del potere temporale vaticano. Ha deposto, nominato, negoziato, processato, graziato, usando di potestà verticali sui soldi, sulla vita religiosa, sui vescovi omertosi. Gli esiti sono stati ambivalenti, i passi falsi parecchi, lo sconcerto molto: ma ha conquistato per sé il ruolo del “rivoluzionario” o addirittura del riformatore.
Fratelli (tutti)
Con Francesco l’ecumenismo non ha prodotto risultati; le chiese restano divise, e se mai fanno cose anche bellissime insieme; invece nel rapporto con le altre fedi ha coniato la formula della fraternità, in conflitto con l’imperialismo etnico degli imperi e delle culture. Non è stato ascoltato da tutti, ma ha affermato l’unico principio per rifare il mondo dopo la terza guerra mondiale a capitoli che durerà per sempre.
Italia (no)
Il papato italiano è finito da quasi mezzo secolo, e anche nel 2013 Bergoglio è stato scelto pensando che i guai della chiesa fossero tricolori. Perciò in dieci anni l’unica cosa che Francesco fa con i vescovi italiani è strigliarli, sgridarli, umiliarli: Milano, Palermo, Venezia senza porpora (data a L’Aquila, Siena, Como) non è una internazionalizzazione, ma un castigo dato con la certezza che ogni umiliazione produca umiltà.
Povertà
È stata la parola chiave dell’inizio, la ragione del nome. L’ha onorata andando vicino ai poveri con l’autenticità e la credibilità che pochi altri hanno; è stato imitato goffamente da chi ha tolto le croci d’oro e non ha capito che la povertà cristiana costa cara.
Misericordia
È stata la chiave della prima parte del pontificato. Non ha toccato il punto della penitenza, abolita dalla desuetudine. Ha però dipanato nodi difficili come quello dei divorziati risposati. Ha avviato un ripensamento sull’amore fra persone dello stesso sesso. Pensare però di seppellire secoli di omofobia borghese e cristiana con una frase sull’aereo sarebbe stato troppo facile e non è stato così.
Sinodalità
È la sfida più seria e urgente della Chiesa del III millennio. Non è la variante cristiana della democrazia né un “discernimento” spiritualista collettivo alla fine del quale l’autorità suprema decide sola. È la comunione che diventa decisione autorevole. L’esperienza dice quanto sia difficile: il cammino sinodale tedesco ha seminato paura, quello italiano sonnolenza, il sinodo d’Amazzonia delusione. La comunione avrebbe bisogno non di un geometra (gesuita) delle istituzioni, ma di un architetto (cristiano) del concilio: Francesco lo può essere se cercherà il vento non nel consenso di dieci anni fa ma nel mare aperto di oggi.
Pace
Tutti vorrebbero un Papa simmetrico a Kirill, che si batte per la vittoria. Francesco ha visto la terza guerra mondiale prima degli altri e non accetta lezioni di antimperialismo, nemmeno da Kissinger; ha imparato (da Lercaro) la differenza fra neutralità e profezia; e sa che ai profeti la fanno pagare.
Celibato
Francesco è troppo furbo per ricordare a tutti che i preti sposati nella chiesa latina li ha introdotti Ratzinger (purché fossero stati anglicani). Ed è troppo cristiano per non sapere che il problema non è la taglia del letto del prete o il sesso delle persone che lo abitano: è cosa forma chi pasce una comunità e cosa deve fare per farlo. Bergoglio ci gira attorno perché sa che per questo non serve un Papa, ma un concilio, prima del quale ci saranno uno o più conclavi.