Potere guardarlo in faccia per capire, solo questo. Andare oltre le parole, agganciare quegli occhi. E di lì provare a scivolare dentro l’anima del ragazzo che diceva di amare sua figlia e l’ha ammazzata. Gino Cecchettin lo ripete dal primo giorno. Spiegazioni, sentenze, perdono: tutto prematuro. Prima lo sguardo, che non ammette filtri e nessuna condizione, nemmeno di essere ricambiato. Quello del padre è una freccia spuntata dal dolore ma non vacilla, resta inchiodato al giovane uomo mentre farfuglia di sacchi neri, di un pezzo di scotch, di un corpo ferito difficile da guardare. È tanto, troppo. Settantacinque coltellate e poi il resto. Ci può dire perché ha ucciso Giulia? Un motivo solo non c’è. "Volevo tornare insieme a lei e soffrivo, provavo risentimento. Avevo rabbia e la incolpavo perché non riuscivo a portare avanti la mia vita. Volevo che il nostro destino fosse lo stesso per entrambi".
Papà ascolta, scava, con gli occhi. Invece Filippo Turetta il suo sguardo lo incastra in diagonale fra i propri piedi e il resto del mondo, come i bambini che sanno di avere fatto una cosa sbagliata. Non sfiora mai l’uomo elegante nel vestito blu al quale ha portato via la cosa più bella. Il papà di Giulia Cecchettin regge finché può. Era venuto per trovare una traccia della sua bambina dietro le palpebre di chi ha ammesso di averla uccisa. Non la trova, ma il racconto frammentato è sufficiente per non restare un minuto più del necessario. "Dolore, tantissimo dolore" dice uscendo dall’aula. Non aspetta che la difesa prenda la parola, non si ripresenta dopo la pausa dell’udienza. "Vado via, non ho bisogno di rimanere – dice –. Il momento più straziante è stato sapere cosa ha attraversato mia figlia negli ultimi momenti della sua vita. Ma non è questo il punto del processo. Il punto è che abbiamo capito chi è Filippo Turetta".
Il ragazzo di fatto ammette la premeditazione, conferma la "lista di cose da fare" e le bugie dette nel primo interrogatorio: lo scotch non serviva per appendere i manifesti, i coltelli non erano pronti per uccidersi. Il suo avvocato adesso vuole saperne di più: "Ma per me è tutto chiarissimo – assicura Cecchettin –. Quello che emerge oggi è che la vita del prossimo è una cosa sacra. E non bisogna entrare nel merito delle vite degli altri". Si sono accorti tutti dello scartamento. Cercava un contatto dove magari impostare una riconciliazione, l’altro una via di fuga: "Chiedete a lui perché". Si sono trovati vicini per la prima volta a quasi un anno di distanza in un cubo spoglio e senza sbarre dopo l’assassinio dell’11 novembre 2023 e la cattura di Turetta in Germania. Un 22enne con la felpa e la faccia sbarbata che arranca nella sua cronaca dell’orrore fra troppi "non so" e "non ricordo" senza mai pronunciare il nome Giulia e un adulto che in due anni ha perso la moglie e la figlia.
Uno reo confesso, l’altro diventato l’esempio di un modo inedito di vivere il dolore: a schiena dritta, col coraggio di guardare in faccia la sofferenza nel tentativo di comprendere e accogliere. Aveva detto: "Non lo so se riuscirò a perdonare Filippo. Sarà difficile, neanche Gesù ha perdonato i suoi carnefici delegando il compito a Dio. Spero solo che si renda conto di quello che ha fatto. E che magari un giorno sia lui a dare dei messaggi a chi attraversa le stesse difficoltà". Dignità, coerenza. E uno spiazzante ribaltamento di prospettiva, forse non esattamente la parte che qualcuno sperava di vederlo interpretare: niente rabbia, odio, rancore, solo il bisogno di capire cosa abbia spinto un essere umano ad agire in quel modo. Poi quando è troppo ciao: "Adesso vado via". Né un sussulto né una parola fuori posto. Perdonare? Se ci sarà spazio, non significherà giustificare e nemmeno dimenticare. Gino Cecchettin davanti alla corte di Assise di Venezia non trova gli occhi di Filippo Turetta. E forse anche per questo dice di avere capito di chi sia.