Mercoledì 18 Dicembre 2024
Elettra Gullè
Cronaca

“Ci ha detto grazie con gli occhi”. Ottavia Piana e l’infermiera umbra che l’ha salvata: “Era stremata”

Parla una delle soccorritrici che ha preso parte alle operazioni di salvataggio della speleologa intrappolata: “Le polemiche? Ottavia è assicurata con il Cai e noi siamo tutti volontari”

Sara Trasciatti

Sara Trasciatti

Foligno (Perugia), 18 dicembre 2024 - “Sono partita ieri mattina e sono entrata in grotta nel tardo pomeriggio. Ho partecipato all’ultimo percorso del meandro finale, dove la grotta si restringeva notevolmente e ci si poteva muovere solo in fila indiana. È stato faticoso, ma la gioia di aver contributo a salvare la vita di una ragazza ripaga ogni sforzo. Ottavia era troppo debole per ringraziarci a volte. Ma l’ha fatto tante volte con gli occhi”. Sara Trasciatti, infermiera umbra ventottenne del Soccorso alpino e speleologico, è tra i volontari-eroi che hanno partecipato al complicatissimo salvataggio della speleologa Ottavia Piana, rimasta bloccata nell’Abisso Bueno Fonteno per quasi quattro giorni.

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Chi paga il salvataggio di Ottavia Piana? Non i cittadini ma (quasi tutto) l’assicurazione privata degli speleologi

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Ci racconti come è iniziata la tua partecipazione al salvataggio?

«Sono stata allertata dal coordinamento nazionale attraverso una chat riservata ai tecnici del soccorso speleologico. Quando viene richiesto supporto, i sanitari come me vengono coinvolti per garantire assistenza medica in situazioni estreme».

Il primo abbraccio di Ottavia Piana con il fidanzato
Il primo abbraccio di Ottavia Piana con il fidanzato

Qual è la preparazione necessaria per affrontare operazioni simili?

«Alla base di tutto c’è la passione per la speleologia, per la montagna e per la fatica fisica. In aggiunta, occorre una formazione tecnica specifica. Sono un’infermiera di terapia intensiva a Foligno, ma per far parte del soccorso speleologico ho dovuto superare test particolari e acquisire competenze specifiche. Non si tratta solo di resistenza fisica, ma anche di una preparazione psicologica e logistica. È una missione che può durare molte ore, come è successo in questo caso: io ci sono stata poco, ma alcuni miei colleghi sono rimasti sottoterra anche 24 ore»

Sara Frasciatti (la prima a sinistra)
Sara Trasciatti (la prima a sinistra)

Che equipaggiamento portate con voi?

«Ogni soccorritore deve essere completamente autosufficiente. Portiamo con noi sacchi a pelo piccoli, coperte termiche per le pause e cibo energetico come barrette e integratori in gel. Sono alimenti che forniscono un apporto calorico immediato e ci aiutano a mantenere l’energia necessaria per operare in condizioni difficili».

Come hanno reagito i tuoi familiari alla notizia della tua partecipazione a questa missione?

«I miei genitori sono impauritissimi. Sono sedentari e, per loro, lo sport è già una fatica sulla terraferma. Figuriamoci sotto. Ogni volta sono estremamente preoccupati, ma sanno che lavoro sempre insieme a persone altamente preparate e competenti. Questo li tranquillizza, almeno in parte.»

Com’era lo stato d’animo di Ottavia durante il salvataggio?

«Ottavia parlava poco. Durante le valutazioni neurologiche e psicologiche abbiamo notato che era molto provata e frustrata. L’ultimo tratto della grotta era particolarmente stretto, spesso dovevamo strisciare e il corpo di Ottavia urtava contro le rocce. In alcuni momenti il dolore era così intenso che ci ha chiesto di fermarci. Ma quando ha capito che il calvario stava per finire, ha mostrato un sollievo evidente. Non ci ha mai chiesto di accelerare, anzi, ci ha chiesto più volte di rallentare per riposare. Nel tratto finale le abbiamo chiesto se voleva aspettare tre ore per un intervento diurno, ma ha preferito uscire il prima possibile. Comprensibilissimo».

Pensi che Ottavia tornerà mai in grotta?

«Non mi ha detto nulla a riguardo e certo non era il momento per porle una simile domanda. Ora lei dovrà intraprendere anche un percorso psicologico per elaborare l’esperienza. La nostra speranza è che possa tornare presto a farci compagnia. La passione per la speleologia è forte in tutti noi».

Ci sono stati momenti in cui avete avuto paura di non farcela?

«Per la prima squadra sicuramente, perchè le condizioni della ferita non erano note. Ottavia aveva perso conoscenza due volte. Noi delle squadre successive non abbiamo mai avuto paura di non riuscire nell’impresa».

C’è stata qualche imprudenza da parte di Ottavia?

«È difficile dirlo. La grotta era in esplorazione e la roccia non facilitava la progressione. Un incidente del genere sarebbe potuto accadere a chiunque. Sarà lei a raccontarci, con il tempo, se c'è stato un errore di valutazione».

Sui social si rincorrono le polemiche sui costi dell’operazione. Cosa ti senti di replicare a queste accuse?

«Non è vero: non ci sono grandi costi. Ottavia è assicurata con il Cai e noi soccorritori siamo tutti volontari, quindi non riceviamo alcuna retribuzione. I costi materiali e logistici si equiparano a quelli normalmente sostenuti dal servizio pubblico».

Cosa vi spinge a dedicarvi a un'attività così rischiosa?

«La ricerca dell’ignoto è sempre stata una spinta potente per l’essere umano. Per me, oltre alla passione per l’ambiente della grotta, è anche un modo per staccare dal caos della vita quotidiana. Sotto terra si spengono i telefoni e, per certi versi, si stacca la mente catapultandoci in un altro mondo».

Cosa hai provato uscendo dalla grotta?

«Una grande soddisfazione nel vedere i propri sforzi ripagati. La gratificazione maggiore arriva quando realizzi che hai contribuito a riportare a casa una persona sana e salva. Poi, è stato bellissimo poterci riparare in una tendina riscaldata. La grotta non era particolarmente fredda, ma all’uscita il vento era pungente».