Se dovessero essere confermate le accuse, se dovesse corrispondere al vero quello che emerge dall’inchiesta del procuratore di Trapani, Gabriele Paci, allora potremmo trovarci di fronte a un caso eclatante e vergognoso in cui detenuti vengono puniti, umiliati e addirittura torturati da uomini di legge. Se così fosse il carcere "Pietro Cerulli" di Trapani sarebbe stato trasformato in una sorta di piccola succursale italiana del famigerato IK-3 di Kharp, il penitenziario russo di massima sicurezza dove era recluso Aleksei Navalny o come la prigione di Diyarbakir (Turchia), la più sadica al mondo.
Undici poliziotti penitenziari in servizio al "Cerulli", carcere che ospita oltre 500 reclusi, sono stati arrestati con l’accusa di torture e abuso d’autorità, mentre altri 14 agenti sono stati sospesi dal servizio. L’ordinanza di custodia cautelare, firmata dal gip Giancarlo Caruso su richiesta del procuratore capo Paci, ha portato anche alla perquisizione domiciliare di 46 persone. I reati contestati ai 25 indagati (gli arrestati e i sospesi), a vario titolo e in concorso, includono tortura, abuso d’autorità, falso ideologico (per alcune relazioni di servizio contraffatte) e calunnia nei confronti di detenuti del penitenziario trapanese.
Le indagini sono partite nel 2021 e si sono concluse a fine 2023, dopo le denunce di detenuti che avevano subito maltrattamenti all’interno di luoghi privi di telecamere. Subito dopo, sono stati installati – oltre alle telecamere di ‘ordinanza’ – altri occhi elettronici che hanno registrato l’inimmaginabile. Sono emerse, infatti, violenze e sopraffazioni ripetute. Botte, umiliazioni, minacce, anche torture fisiche e psicologiche: il carcere era diventato un "girone dantesco" (parole di Paci) in cui la legge era tenuta fuori. Il nucleo investigativo regionale della polizia penitenziaria di Palermo, coordinato da reparti territoriali e dal nucleo investigativo centrale, ha condotto le indagini sui "colleghi".
È emerso un "modus operandi diffuso" fatto di violenze fisiche e atti vessatori e inumani contro i detenuti, in particolare quelli più vulnerabili, con problemi psichiatrici o psicologici. Le violenze, spesso gratuite e brutali, avvenivano in luoghi appartati, come il ‘reparto blu’ del carcere, isolato per carenze igienico-sanitarie. Una zona franca e non sorvegliata, in cui i detenuti venivano spogliati, colpiti da getti d’acqua mischiati a urina e sottoposti a torture fisiche, a volte anche manganellati, come una sorta di metodo sistematico per mantenere l’ordine.
Il procuratore Paci ha definito questi atti come "violenza quasi di gruppo" e "inconcepibili torture" a danno dei detenuti, con alcuni agenti che agivano con modalità non episodiche, ma come una vera e propria prassi. Circa venti i casi scoperti. "Certo – dice il procuratore – capisco lo stress che vive un agente di polizia penitenziaria, ma questo non legittima assolutamente le violenze". "Il reato di tortura ha rotto il muro di omertà". Così il presidente dell’associazione Antigone, Patrizio Gonnella commenta gli arresti di Trapani. "Quanto emerso nel carcere di Trapani, segnala ancora una volta quanto il reato di tortura (introdotto nel 2017, ndr) sia fondamentale, per diverse ragioni – dice Gonnella –. Da una parte per perseguire i responsabili di questo crimine. Dall’altra, nel far sentire il supporto dello Stato alle persone che subiscono torture o violenze in carcere che oggi, molto più di prima, tendono a denunciare questi episodi".
La vicenda di Trapani somiglia a quella che coinvolge 52 operatori penitenziari del carcere di Santa Maria Capua Vetere per vicende che risalivano all’aprile 2020. La metà di loro, con il processo che non si è ancora concluso, è tornata in servizio.