Andrea
Bonzi
Riviera romagnola, anni Ottanta. ‘Mamma, mi dai 200 lire?’. L’obolo finiva nei videogame delle sale giochi e noi, ragazzini, guidavamo astronavi in campi di asteroidi o diventavamo campioni di calcio virtuali. Poi sono arrivate le console, Playstation e X-box, e non era più necessario spostarsi da casa. Le regole del (video)gioco sono cambiate. E’ un’industria tra le più in salute, come dimostrano i ricavi della Nintendo che schizzano del 200% (in tempo di Covid) e le vendite delle piattaforme di nuova generazione. L’Italia ha fior di professionisti che lavorano nel campo. L’esperienza videoludica è più coinvolgente, la grafica realistica, le trame complesse e spesso violente (ma ci sono prodotti per ogni età). I ragazzini - e anche gli adulti - non si trovano più a casa dell’amico fortunato col videogame di grido, ma comunicano tramite chat, giocando insieme la stessa partita. Sono esperienze nuove, il cui impatto sulle nuovissime generazioni è sconosciuto sul lungo periodo, è vero. Lasciare un ragazzino col joypad in mano per ore di sicuro non è una buona idea. Ma l’abuso non va mai bene, in tutte le esperienze. Il punto è che i videogiochi sono tra noi da almeno 40 anni, eppure si continua a trattarli come un mondo a parte, oscuro e sconosciuto. L’errore è lì: da parte di un genitore c’è il dovere di capire e informarsi sulle passioni dei propri figli. Per arrivare, perché no, a condividerle.