IN ITALIA di solito è più facile uscire dal carcere che rimanerci. L’ultrà Amedeo Mancini, arrestato a luglio, corregge la statistica. Dovrebbe lasciare il carcere per gli arresti domiciliari ma resta dentro come se fosse un terrorista anche se è accusato di omicidio preterintenzionale, dopo una prima versione dei fatti smentita, rivista e corretta. Tutto parte da una ignobile offesa razzista dell’ultrà, nessun dubbio. Il nigeriano in compagnia della moglie però reagì colpendolo con un segnale stradale, Mancini si difese con un pugno, l’altro cadde e morì sbattendo la testa. Questi sono i fatti accertati. Brutta storia, resa ancora peggiore però dall’evoluzione giudiziaria. L’ostinazione a tenere in carcere l’ultrà mette in luce un meccanismo perverso dove si mescolano pregiudizi razziali alla rovescio, furia del «politicamente corretto» e una surreale carenza del sistema giudiziario che sembra inventata da Totò: non è disponibile alcun bracciale elettronico per il controllo degli arresti domiciliari e quindi Mancini dal 5 agosto resta in carcere nonostante un doppio parere favorevole (Tribunale del riesame e d’Appello). Come al ristorante. Scusi, non c’è posto ripassi fra qualche giorno. Solo che qui c’è uno dietro le sbarre. Sarà pure un ultrà antipatico, esagitato, forse un po’ balordo ma se uno Stato vuole essere garantista deve esserlo con tutti, senza condizionamenti politico -morali.
L’ITALIA che per mesi litiga sull’Italicum e sul referendum costituzionale si perde in un caso di carcerazione preventiva emblematico. E Mancini paga il conto doppio di mala giustizia e razzismo alla rovescio. L’opinione pubblica lo condannò subito enfatizzando la versione a sfondo razziale di Don Vinicio Albanesi, poi smentita da sette testimoni. La presidente della Camera Laura Boldrini fece da megafono indignata. Il senatore Carlo Giovanardi che chiese di «verificare i fatti» fu insultato in Parlamento. Silenzio assordante invece quando anche la vedova del nigeriano, pur distrutta dal dolore, dovette far retromarcia. Così, in un intreccio di condizionamento mediatico e giustizialismo giudiziario che si sono alimentati a vicenda, la versione del pestaggio razzista è esplosa. Comoda e facile da diffondere. Ora niente bracciale, niente libertà. Se fosse successo alla rovescio, il nigeriano dentro e l’altro morto, sarebbe scoppiato il finimondo.