
In Myanmar gli scavi tra le macerie dopo la forte scossa di terremoto. dello scorso 28 marzo
Peruzzi
Migliaia e migliaia di persone che sventolano le bandierine rosse con il pavone dorato e la stella bianca, simbolo dell’Nld party, il partito della leader dell’opposizione birmana, Aung San Suu Kyi, lungo centinaia di chilometri di strade sterrate. Sono tutti ricoperti di sabbia e polvere, come noi, seduti dietro, ma vogliono dimostrare il loro sostegno alla donna che più di ogni altro incarna lo spirito del Myanmar, e agli altri candidati del suo partito. Era l’inizio di aprile 2010. Due anni prima i militari avevano liberato migliaia di prigionieri politici e indetto le prime elezioni democratiche del Myanmar (così vennero presentate al Mondo dalla giunta). Ai seggi si parlava con persone che, per aver difeso un’idea di libertà, si erano fatte dai 10 ai 25 anni di carcere. Un popolo aperto, sorridente, gentile, che si era armato per difendersi dai militari, tornava a sperare. Oggi, il terremoto ha riacceso i riflettori su un Paese scomparso dai radar dopo il golpe del 2021, che ha riportato al potere i militari e in carcere Aung San Suu Kyi e tutti gli attivisti che non sono riusciti a scappare o non sono rimasti uccisi. I giornalisti non possono entrare, l’opposizione è in esilio, le telecomunicazioni sono difficilissime e le infrastrutture pressoché inesistenti.
Eppure, nonostante il regime di terrore, i bombardamenti proseguiti anche durante e dopo il sisma, la giunta militare controlla solo il 21% del territorio, intorno alla capitale. Ma controlla senza avere il consenso della popolazione: di fatto, sono i gruppi dei ribelli a governare. Questo popolo fatto di almeno 135 gruppi etnici indigeni, (non ci sono dati aggiornati sulla composizione, soprattutto nelle zone montane) può piegarsi, ma resta solido nella battaglia per la libertà.