Roma, 22 luglio 2024 – Il lavoro che facciamo è capillare, si passa di villaggio in villaggio, spostandoci di pochi chilometri, per raggiungere proprio tutti, poiché qui ci si sposta a piedi, nel buio, di notte, spesso scalzi e sicuramente poco vestiti, nonostante l’inverno si faccia sentire con temperature che scendono fino a 4-6 gradi. Nelle comunità in cui ci siamo fermati, lungo il percorso, abbiamo percepito il fermento che si respira quando i Paesi si preparano a nuove elezioni.
In Mozambico, i cittadini saranno chiamati a votare per le politiche a ottobre e, anche così lontano da Maputo, si percepisce una certa tensione, frutto della storia recente di questo paese, l’unico al mondo ad avere rappresentata un’arma sulla propria bandiera nazionale: nello specifico, un kalashnikov AK47, simbolo della guerra di indipendenza che portò il paese a liberarsi dalla dominazione dei portoghesi, che durava dal XV secolo. Ad affrontarsi ancora una volta Frelimo, il Fronte per la libertà del Mozambico e Renamo, la Resistenza nazionale mozambicana, le stesse fazioni che dettero vita, subito dopo la guerra che portò all’indipendenza dal Portogallo, nel giugno del 1975, a una guerra civile che durò fino agli inizi degli anni 90 e che ha lasciato strascichi pesanti anche dopo la sua fine, in quello che è stato, per molto tempo, uno dei paesi più minati al mondo, prima di portare a termine un’operazione di bonifica che si è conclusa solo una decina di anni fa.
La figura del comandante Samora Machel, che guidò il Frelimo nella guerra di indipendenza, è leggendaria da queste parti. Un’icona di coraggio, forza, dignità, rappresentata in ogni piazza del paese, sui murales, nei manifesti, riconosciuta non soltanto in Mozambico, ma anche nel resto dell’Africa, celebrata in film, libri e canzoni, come nella celebre A Luta Continua di Miriam Makeba. Eppure, trent’anni dopo, la critica nei confronti della classe dirigente serpeggia, anche se svelata a mezza bocca, per non farsi sentire, ma lasciarsi intendere.
Quella parte di popolazione che ha gli strumenti per maturare un po’ di consapevolezza e di senso critico, si interroga e ci interroga, sul perché ancora manchino infrastrutture vitali, collegamenti, ospedali. Una delle conseguenze dell’inazione della politica locale e del senso di abbandono delle popolazioni è sotto i nostri occhi: quella frutta che gli agricoltori delle comunità rurali più povere non riescono a vendere nel loro Paese, riesce invece a raggiungere lo Zimbabwe, e da lì il Sudafrica, grazie a imprenditori di Cape Town e Harare. Si potrebbe fare, insomma, ma non si fa. Solo un esempio, certo, ma indicativo. Ma le tensioni più serie si registrano nelle regioni del nord, quelle al confine con la Tanzania. Nella provincia di Capo Delgado, dove con il cinema itinerante eravamo arrivati nel 2008, per informare la popolazione su come difendersi dalla diffusione dell’Hiv, attualmente è l’instabilità a regnare. Bande armate di terroristi vicini al gruppo somalo degli Al-shabab imperversano dal 2015 e da circa due anni il Califfato Islamico, sconfitto in Iraq e Siria, sta serrando le file anche in questa parte di Mondo, cavalcando la rabbia della popolazione che, soprattutto lontano da Maputo, deve fare i conti con una povertà estrema.
A Mucondje, in questo villaggio fra le montagne, la notizia siamo noi, il nostro arrivo, la carovana con le telecamere, i microfoni, lo schermo luminoso, che suscitano ovunque andiamo stupore e curiosità. Gli abitanti del villaggio ci vengono in contro, carichi di interesse, i bambini ronzano intorno, guardano e chiedono una foto per rivedersi e ridere di gusto, sorpresi della loro stessa immagine. Persone semplici che conoscono il senso della famiglia, della comunità, così lontane dall’individualismo fuori controllo che sta permeando le società occidentali, da farmi sentire terribilmente in difetto. C’è voglia di condividere e di raccontarsi, l’orgoglio di un popolo di combattenti che ogni giorno percorre chilometri, spesso a piedi scalzi, per arrivare al pozzo più vicino e portare a casa dell’acqua pulita. Soprattutto le bambine. Una di queste si avvicina a noi, con lo sguardo serio e indagatore: indossa un abito da principessa, finito qui chissà come, dopo essere stato indossato da una coetanea, dall’altra parte del mondo, probabilmente un giorno solo, magari anche svogliatamente, per celebrare il carnevale. Il vestito è logoro, eppure riesce davvero a conferirle un’aria regale.
Ci invitano a condividere il pasto con loro: un piatto di polenta di miglio, che qui chiamano “cima”, verdure e fagioli, cucinate su tre pietre, che nella tradizione locale, ci raccontano ridendo, rappresentano i tre tipi di uomini con cui una donna mozambicana avrà a che fare nel corso della vita: l’uomo che si ama, l’uomo con cui si fa l’amore, quello con cui si mette su famiglia. In quanto ospiti, ci è concesso il privilegio di mangiare il cuore del gallo sacrificato in questo giorno di festa: è un modo, ci raccontano, per onorare lo spirito di questo animale. Un rituale che può risultare un po’; macabro, ma che in realtà ha una potente valenza simbolica: ogni animale, quando viene ucciso, libera il proprio spirito che va onorato e rispettato. In realtà, ogni manifestazione naturale è emanazione di uno spirito antico.
Tutto è profondamente interconnesso: uomini, animali, natura. Anche il ragno cicciottello che mi ospitava nella stanza in cui dormivo. "È lo spirito che veglia sul tuo sonno, uno spirito benevolo, che non va fatto arrabbiare", mi hanno spiegato. E visto che non si sa mai, meglio dar retta. Iniziamo a giocare con i bambini, tirando calci a quello che è diventato quasi un elemento distintivo di molti paesi africani, un pallone fatto di stracci. Ridono divertiti nel vedermi giocare. Non c’è da chiedersi il perché, visto che sono ben lontana dall’idea di campionessa.
Seguo Amancio, il nostro cameraman, con cui andiamo in giro a realizzare il film del villaggio. Riprendiamo i personaggi più caratteristici, i loro volti, le attività quotidiane, giovani e anziani, la bancarella col pesce essiccato, quella con gli ortaggi. Queste immagini che costituiscono una breve rappresentazione della vita del villaggio, montate a tempo di record, danno inizio alla festa: per il pubblico nulla è più divertente che rivedersi sul grande schermo. Nel pomeriggio ci occupiamo anche di altre attività. Eduardo e Cidalia, i due attori professionisti che lavorano con noi, coinvolgono alcune persone del villaggio con cui porteranno in scena, durante la serata, un vero e proprio spettacolo, attraverso cui veicolare il messaggio sull’importanza di unirsi in associazioni. È uno strumento molto efficace: in luoghi dove non sempre ci sono le condizioni per imparare a leggere e scrivere, le storie raccontate e tramandate (anche attraverso il teatro) funzionano spesso meglio dei libri.
Mettere in scena situazioni di vita vissuta, quotidiana è un modo efficace per assimilare certi messaggi. È una cosa che Eduardo e Cidalia sanno bene. E infatti, quando è il loro turno, lì sull’arena, la gente ride divertita alle loro battute, agli scherzi, ai siparietti improvvisati. Finito il lavoro di training e di esplorazione del villaggio, dobbiamo montare il maxi schermo e allestire l’attrezzatura tecnica, le luci, lo spazio. E poi arriva il momento che aspettiamo sempre con grande trepidazione: andiamo a promuovere l’evento, muniti di megafono , insieme a un abitante del posto, che ci aiuterà con la lingua locale.
(2- continua)