Milano, 13 luglio 2023 – Ha deciso di parlare dopo un mese di silenzi. Perché?
"Semplice. Sto ancora aspettando le accuse. Sul mio certificato penale non ci sono denunce, carichi pendenti né indagini in corso. Il mio avvocato ha il mandato di ristabilire la mia onorabilità. Vedo una decina di persone che da anni fanno un uso piratesco di testimonianze inesistenti e false notizie, gli stessi che oggi si affannano ad attaccarmi perché pensano sia uno straordinario marpione...".
La interrompo. L’accusa che circola è molto più grave: lei sarebbe un predatore sessuale e un molestatore seriale.
"Sorrido. Dal 2003 non sono più nel mondo delle agenzie di pubblicità, dove avevo lavorato per vent’anni fino a fare il dirigente. All’epoca avevo decine di persone alle mie dipendenze: mai una denuncia o una lamentela. Oggi sono un consulente: non ho dipendenti. Non appartengo a multinazionali, non ho padrini, non ho padroni. Non ho mai lavorato né conosco qualcuno di We are social, l’azienda dell’ignobile chat sessista, e non sono stato escluso dall’Art Directors Club per molestie sessuali".
Il grande accusato si sente vittima di una macchinazione? Davvero vuole sostenere questa versione: una congiura?
"Assolutamente sì. Do fastidio perché non appartengo a nessuna parrocchia. Contro di me c’è una miscela di pura invidia e la frustrazione di chi, ormai fuori dal settore, irrilevante, squallido, cerca di riguadagnarsi una reputazione attraverso il Metoo". Pasquale Diaferia si presenta all’appuntamento senza cravatta, sorridente, una valigetta e pochi appunti scritti a penna su un foglietto. Manager, 63 anni, originario di Varese, carriera di successo ("Toglietemi tutto, ma non..."), campagne sociali e premi internazionali. Il suo è il primo nome uscito a Milano nello scandalo delle molestie e degli abusi nel mondo del marketing: "Nulla da temere, aspetto. Mi piace difendermi in tribunale". Intanto se ne parlerà il 18 luglio all’assemblea convocata dall’Art Directors Club Italiano (Adci). Primo punto all’ordine del giorno: nuovo codice di condotta contro molestie sessuali e abuso di potere.
Il suo primo accusatore pubblico è il collega Massimo...
"Niente nomi. Quell’uomo sostiene che non sono innocente ma impunito: esiste nel Codice penale? Non credo".
Almeno una dozzina di ragazze hanno raccontato di aver subito approcci, molestie e abusi sessuali da lei: a quanto ci risulta la prima testimonianza risale al 2009 e altre sono state raccolte in questi anni – su carta e sui social – in un dossier che viene ancora alimentato. Una giovane ha riferito questo episodio: ’Mi sono ritrovata nel suo letto senza capire come potesse essere successo, mi avrà messo qualcosa nel caffè shakerato’. Un’altra ha parlato di un’aggressione in auto.
"Non so di cosa stiamo parlando. Una delle donne apparsa sui media, stando al suo racconto, avrebbe potuto denunciarmi già nel 2011. E non l’ha fatto. Aggiungo: io giro in moto, non in auto. Detto questo: se arriverà qualcosa, mi difenderò".
Queste donne hanno spiegato perché non denunciano, non le sarà sfuggito: chi parla rischia di perdere il lavoro e vede franare la carriera, le vittime si sentono sotto ricatto.
"Ma di cosa stiamo parlando? Quello della pubblicità è un ambiente basicamente sano. Le donne sono la componente maggioritaria e più di talento fin da quando sono entrato io nel settore. Nel 1983 mi ha assunto alla Jwt la presidente Anna Scotti. Sono stato scelto da due grandi direttrici creative. Ho lavorato con dg donne. Nel 1996 ho fondato la Grey Interactive con Denise Tanzer. Donna. Ma le potrei citare anche Milka Pogliani, presidente dell’Adci che mi mandò al Festival di Cannes come giurato nella categoria cyber, primo italiano nella storia".
Questo non dice nulla, però, delle eventuali responsabilità personali.
"Sono oltre dieci anni che vengo colpito da ’si dice’ e pettegolezzi. Nel 2019 qualcuno inviò un sms al presidente dell’Adci sostenendo che ottenessi prestazioni sessuali in cambio di lavoro. Lo deferii ai probiviri e l’accusa non dimostrò nulla. L’autore di quel messaggio è la stessa persona che mi accusa oggi".
Quindi il settore non è sessista e inquinato come denunciano migliaia di lavoratrici?
"Non credo che il nostro ambiente sia diverso dagli altri. Oggi, per altro, sono moltissime le donne in ruoli apicali".
La chat di We are social era una discarica di violenza verbale e stereotipi, le pare?
"In alcune strutture para-industriali con migliaia di dipendenti ci può essere una componente maschilista, sessista, machista? Sì, può essere. E va combattuta e denunciata. Noto che al centro di controllo di We are social siedono tre uomini. Io non ho mai avuto esperienze di questo genere in nessuna agenzia".
Il movimento contro gli abusi sostiene il contrario: un tempo venivano tollerati e taciuti comportamenti inaccettabili.
"Certi atteggiamenti non erano tollerati nemmeno 30 anni fa".
Eppure il Metoo è un fenomeno relativamente recente.
"Questo è il Metoo del patriarcato. È gestito da uomini che attaccano uomini. Se le donne provano ad alzare la testa – come Tania Loschi, la copy che ha organizzato la mobilitazione social – ecco, a queste donne viene tolto spazio. Io ho grande stima e rispetto per chi, come Loschi, porta prove solide. Ma nel settore ci sono soprattutto uomini che usano il Metoo per cercare visibilità, reputazione, credibilità. Questa ordalia produce solo danni ed è gravissimo. Lei dirà: lo dice lei che è sotto accusa".
Pensavo esattamente questo.
"Io sono un uomo di comunicazione che ha fatto campagne di grande impatto sociale. Il primo spot sull’uso del condom contro l’Aids mi portò gli strali di Rosy Bindi. C’è la mia firma sui 40 anni di Pubblicità progresso. Ho vinto il Premio Borsellino nel 2018 con Klaus Davi e Patrizia Pfenninger per le campagne contro mafia, ’ndrangheta e camorra. Sono una persona più complessa del pubblicitario cazzone, per dirla alla Oliviero Toscani. E sul Metoo sposo la linea americana del dopo Weinstein, quella di ’Female quotient’. Una grande quantità di processi è finita con assoluzioni, ecco, concentriamoci sul gap salariale. In Italia le donne guadagnano il 40% in meno dei colleghi. Io e la mia compagna abbiamo lanciato il calcolatore di salario...".
Veramente il Metoo non ha portato solo in carcere Weinstein. Potrei citarle Roger Ailes cacciato da Fox e Kevin Spacey sparito dalle scene. Per non dire dell’impatto che ha avuto sui luoghi di lavoro: oggi c’è un’attenzione enormemente più alta su molestie e parità di genere.
"Che io condivido. Penso però che le donne debbano unirsi per guadagnare di più. Donne con più soldi in tasca sono più forti, più ricche, più potenti".
Lei dice: è il Metoo degli uomini. Perché dovrebbero appropriarsi del movimento e strumentalizzarlo? E perché una battaglia esclude l’altra
"Perché il mito del Metoo è fonte di reddito. Io mi tolgo il cappello davanti alle associazioni per i diritti e ai centri antiviolenza. Ma il Metoo sta diventando business. Spuntano associazioni che garantiscono la certificazione di genere alle aziende. È come il greenwashing: le società fingono di guardare con grande benevolenza al mondo femminile ma invece di alzare gli stipendi prendono attestati".
La sua ex moglie sostiene che usava i corsi di formazione e le lezioni in università come ’territori di caccia’ per le sue prede sessuali.
"È curioso che non abbia portato queste presunte vittime in aula durante la causa di separazione. In tribunale ha perso su tutta la linea dopo aver lanciato accuse infamanti di violenze e abusi, rigettate dal giudice. Tre denunce sono state archiviate. Ho dimostrato che mentiva. Il mio nemico pubblico numero uno era tra i suoi testimoni: non si presentò mai".
È stato escluso dall’Adci nel pieno dello scandalo molestie per il ’clamore’ social suscitato dalla vicenda: ha presentato ricorso o lo farà?
"L’ho presentato immediatamente. Sono stato accusato di ’interesse personale’ durante una manifestazione del Club a Bari a cui partecipavo a titolo gratuito. Assurdità".
All’assemblea del 18 luglio, oltre a lei, sono stati invitati anche il suo primo accusatore e la sua ex moglie: sarà una resa dei conti in pubblico? Cosa ne pensa, Diaferia?
"Che non sono soci del club. E mi opporrò. Alle assemblee parlano i soci, non i diffamatori".
Si parlerà di molestie e abuso di potere: è preoccupato?
"Per niente. Piuttosto, mi stupisco che l’Adci se la prenda con me, senza prove, quando aveva in casa We are social: il direttore creativo era socio del Club, eppure i vertici non si erano accorti di nulla. Clamoroso no?"