Palermo, 25 settembre 2023 – “C’è un tempo per nascere e un tempo per morire, ma solo chi lo vuole davvero riesce a volare, e il tuo volo è stato il più sublime in eterno". Chissà se i parenti di Matteo Messina Denaro useranno per lui le stesse alate parole, tratte dal libro biblico dell’Ecclesiaste, che lui, la madre e le sorelle dedicarono nel 2004 a don Ciccio, il patriarca Francesco. Quel passo così aulico e ispirato, addirittura in latino, fu pubblicato come necrologio sui giornali siciliani per l’anniversario della morte di don Ciccio. Secondo gli investigatori, sarebbe stato lo stesso Matteo a scegliere le frasi da dedicare al padre. Nel 2003 era toccato al Vangelo secondo Matteo, coincidenza non casuale, anche perché il passo in questione era "beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli"... Poi negli anni i necrologi si fecero più sobri e rarefatti, senza scomodare le Scritture.
Matteo Messina Denaro è morto lasciando come ultima volontà il rifiuto di "ogni celebrazione religiosa perché fatta da uomini immondi che vivono nell’odio e nel peccato". Ma, come accade con tutti i boss, le esequie religiose sarebbero state negate comunque dal questore di Trapani. E inoltre pende sempre sui mafiosi la scomunica della Chiesa. MMD riconosceva solo la propria autorità e negava quella della Chiesa quanto quella dello Stato. "Non sono coloro che si proclamano i soldati di Dio a poter decidere e giustiziare il mio corpo esanime. Non saranno questi a rifiutare le mie esequie… Rifiuto tutto ciò perché ritengo che il mio rapporto con la fede è puro, spirituale e autentico, non contaminato e politicizzato. Dio sarà la mia giustizia", scriveva in un pizzino dieci anni fa, quando ancora non aveva scoperto la malattia che l’avrebbe portato alla morte.
Il rapporto tra Messina Denaro e la religione è più controverso di quanto possano far credere i suoi giudizi sprezzanti sulla Chiesa cattolica. Nel 1998 il padre Francesco morì, di morte naturale, in campagna, e il cadavere fu fatto ritrovare sotto un ulivo vestito di tutto punto per il funerale, con in tasca due santini, quello di San Francesco e quello della Madonna della Libera di Partanna. Il prete che celebrò il rito al cimitero di Castelvetrano sentenziò che "la vicenda umana del nostro fratello la sa solo Dio, gli uomini non possono giudicarla". Praticamente lo stesso dogma di Matteo Messina Denaro. Al quale la Chiesa e i preti andavano bene solo se complici o perlomeno spettatori silenti. Come in quei giorni di latitanza con il padre in una sacrestia di Calatafimi a godersi la processione del Santissimo Crocifisso. O come quel sacerdote che gli avrebbe fatto da confessore benché già latitante . E comunque MMD dovrebbe essere tumulato sempre a Castelvetrano, nella cappella gentilizia di famiglia su cui veglia all’ingresso una statua di donna angelicata.
Lo spartiacque, per Messina Denaro e per la mafia siciliana, è il 1993. Cioè proprio quando il boss di Castelvetrano iniziò la latitanza. Lo stesso anno in cui Giovanni Paolo II lanciò il 9 maggio dalla Valle dei Templi di Agrigento il "grido del cuore" che suonava già come scomunica: "Nel nome di questo Cristo, crocifisso e risorto, di questo Cristo che è vita, via, verità e vita, io dico ai responsabili: convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio!". Lo stesso anno in cui però, il 15 settembre, il martirio di don Pino Puglisi certificò che anche nella Chiesa la mafia vedeva ormai un nemico. E infatti, secondo Giuseppe Pignatone, ex procuratore di Roma e oggi presidente del Tribunale Vaticano, le stesse stragi romane del luglio 1993 – San Giovanni in Laterano e San Giorgio in Velabro – "erano anche una sfida alla Chiesa e alla sua capacità di orientare la cultura antimafia del Paese". Matteo Messina Denaro era uno dei mandanti.