Trapani, 25 settemnre 2023 – Dove sei Matteo? Per qualche lustro, quando Matteo Messina Denaro sembrava imprendibile, Giacomo Di Girolamo dai microfoni di Rmc 101, la radio più ascoltata nella provincia di Trapani, lo incalzava. Lo sfidava, sostenendo che l’ultimo boss dei boss non si era mai mosso dal suo regno. E così lo scorso 16 gennaio, quando è stato arrestato in una clinica di Palermo, si è avuta la conferma che Messina Denaro non si era mai mosso dalla Sicilia. È morto nel reparto per i detenuti dell’ospedale di L’Aquila.
Nel supercarcere del capoluogo abruzzese era al 41 bis. Dal giorno dell’arresto al suo ultimo giorno di vita, ha tenuto fede alla consegna del silenzio, l’unico comandamento cui rispondono i boss della mafia. Al massimo ha lanciato – proprio come ricordava Giovanni Falcone nel suo libro ‘Cose di Cosa Nostra’ nel capitolo “Messaggi e messaggeri” – alcuni messaggi. A iniziare dal tono arrogante con cui ha ammesso la sua identità: “Sì, sono Messina Denaro”. Fino a: “La mafia? Non ne ho mai fatto parte, quel che so l’ho sentito dai giornali”. E ancora: “I soprannomi? Me li hanno attaccati da latitante i vari giornalisti. Io sono un agricoltore, un agricoltore apolide”. Con la sua morte e con i segreti che si porta nella tomba si chiude definitivamente la guerra dei trent’anni. Matteo Messina Denaro è l’ultimo Padrino. Ma anche il traghettatore di Cosa Nostra, quello che ha portato la mafia – di cui ha fatto parte dell’ala stragista – a diventare una vera e propria holding. Non spara quasi più la mafia, ma continua a fare affari. L’hanno definito il boss in doppiopetto, abile a maneggiare le armi e la sua prima vita sanguinaria lo dimostra, così come a fiutare gli affari. Basti pensare all’eolico e alla sua terra, Castelvetrano, così battuta dal vento da essere un terreno dove fare business o addirittura agli investimenti nel turismo e nel settore alimentare. Non più semplice infiltrazione del potere criminale nell’economia, ma parte integrante della stessa. Il 30 gennaio 1992 quando la Cassazione conferma le condanne dei boss al Maxiprocesso, si apre ufficialmente la fase stragista di Cosa Nostra. Voluta e ordinata da Totò Riina. A marzo il primo delitto eccellente. Salvo Lima, eurodeputato della Democrazia Cristiana, uomo di Andreotti in Sicilia. Viene ucciso a Mondello. Da lì in poi sarà una stagione di sangue che porterà comunque tutta l’Italia a ribellarsi. Ma cosa fa nel 1992 Matteo Messina Denaro? È il rampollo di don Ciccio (che morirà nel 1998 nelle campagne della sua Castelvetrano stroncato da infarto). Viene considerato uno dei boss emergenti, tanto che gli viene dato l’incarico di andare a Roma per studiare le mosse di Giovanni Falcone che nel frattempo, lasciata Palermo e la procura dei veleni, è stato chiamato dal ministro della Giustizia, Claudio Martelli, per diventare il direttore generale degli Affari Penali. Messina Denaro segue Falcone, ma non se ne fa nulla. Il destino dell’ex magistrato però, è segnato. Il 23 maggio 1992 Falcone salta in aria, a Capaci, sull’Autostrada che da Punta Raisi porta a Palermo. Con lui muoiono la moglie Francesca Morvillo e tre agenti di scorta. L’ala stragista di Cosa Nostra mostra tutta la sua ferocia e la sua potenza geometrica militare nel colpire il simbolo della lotta alla mafia. Messina Denaro ha trent’anni, ma partecipa già alle riunioni che contano della Cupola. Dalla provincia si sposta a Palermo, dove è candidato a succedere (anche fuori dal suo mandamento) a Totò Riina e Bernardo Provenzano: i corleonesi, i viddani, che hanno il pieno controllo della Cupola dopo la guerra di mafia agli inizi degli anni ottanta, in cui avevano eliminato tutti gli avversari della cosiddetta vecchia Cosa Nostra. Quella che Tommaso Buscetta, primo pentito di chiara fama, dirà che non è più la sua Cosa Nostra, davanti ai giudici, perché traffica in droga, ammazza donne e bambini. Insomma, non ha più un codice etico. Se di etica si può parlare nel mondo della criminalità organizzata. Ma la svolta stragista è già stata impressa. A luglio via D’Amelio: muoiono Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta. E quando il 15 gennaio del 1993 Totò Riina, il boss dei boss, viene arrestato a Palermo e lo Stato, per la prima volta, dà un colpo significativo a Cosa Nostra, la Cupola deve decidere il proprio futuro. Mentre Bernardo Provenzano si muove con passo più felpato, Messina Denaro opta, assieme a Leoluca Bagarella e altri boss, per la prosecuzione delle stragi. Sarà un 1993 dove scorrerà ancora sangue tra Milano, Roma e Firenze. U siccu, chiamato così per la sua magrezza (l’altro segno particolare è lo strabismo), ricompare con un nome di fantasia, Alessio, nei pizzini ritrovati nel covo di Bernardo Provenzano, quando l’altro storico boss corleonese viene arrestato. È il 2006, già da un po’ Cosa Nostra non spara più e Messina Denaro è diventato praticamente il nuovo capo dei capi. La strategia è cambiata. Sulla testa del boss, oltre a una taglia di un milione e mezzo, pesano decine di ergastoli: c’è la sua firma nelle stragi del 1992, in quelle del 1993, nell’orrore del figlio del pentito Di Matteo (il corpo del piccolo Giuseppe viene sciolto nell’acido). È un fantasma che – secondo molti – non si è mai mosso dalla sua Castelvetrano se non per le trasferte a Palermo. Trent’anni – da tanto durava la sua latitanza – a inseguirlo. Ogni volta nella relazione dell’anno giudiziario, da Palermo e non solo, a dire: “Siamo vicini alla cattura”. E la cattura è arrivata, proprio a trent’anni da quella di Totò Riina, l’altro boss che aveva impresso una svolta ancora più sanguinaria e violenta di quella che avesse avuto sin dall’inizio. Lui, Messina Denaro, è quello che ha trasformato Cosa Nostra. La guerra degli ultimi trent’anni è finita. Ma su che cosa sia adesso Cosa Nostra e su quanto sia ancora pericolosa c’è, probabilmente, ancora molto da riflettere e da scrivere.