Bologna, 14 febbraio 2020 - San Valentino è anche il giorno di chi si è innamorato di un certo modo di essere ciclista. Non una festa, ma una ricorrenza: il 14 febbraio è una delle tappe della memoria di Marco Pantani, il campione più amato e controverso degli ultimi trent’anni. Ricordato puntualmente nell’anniversario della scomparsa come in quello della nascita, ricordato regolarmente da chi gli voleva bene, sulle strade dove si è mostrato in tutta la sua grandezza sportiva. Ricordato nel bene, come le imprese che ha consegnato alla storia e i ricordi di chi le ha vissute, e pure nel male, come la sua tragedia umana finita a 34 anni e purtroppo il successivo e lungo strascico giudiziario che gli ha negato la meritata e doverosa pace.
Sedici anni sono trascorsi da quella triste notte in cui Marco venne trovato senza vita in una stanza d’albergo a Rimini e da allora la data di San Valentino è diventata l’occasione per ricordare uno straordinario interprete della bici e per riflettere sulla sua contorta e dolorosa vicenda personale. Tra tanti che l’hanno fatto negli anni successivi, c’è anche Alberto Tomba, fenomeno dello sci, l’unico grande atleta al di fuori del ciclismo che accompagnò Pantani nell’ultimo viaggio, seguendone il funerale defilato, quasi nascosto da una colonna, nella grande chiesa sul Porto Canale di Cesenatico. Non lo fece per senso di presenzialismo o di colleganza, ma per amicizia vera: li univa il comune desiderio di sfida alla montagna, la capacità di regalare emozioni uniche alla gente, l’esuberanza che sapevano mostrare anche dopo un’impresa, ma soprattutto il rovescio di quella medaglia chiamata successo. ‘Vince, diverte, emoziona. Ma appena sbaglia, lo castigano’, diceva Marco di Albertone. E dietro quel ritratto tratteggiava un po’ se stesso.
Si volevano bene, Pantani e Tomba. Forse perché sapevano che, dopo di loro, i rispettivi sport non sarebbero più stati gli stessi. O solo perché a una località delle Alpi francesi chiamata Albertville, ribattezzata ‘città di Alberto’ dal diretto interessato, avevano legato un giorno importante della loro splendida carriera: lo sciatore vinse lì uno dei suoi ori olimpici, il ciclista vi sigillò il Tour. Si volevano bene perché frequentarsi era una buona abitudine: fosse in Riviera o in cima a una montagna, capitava spesso. Di quel Pantani, Tomba accettò di parlare un paio di anni dopo la scomparsa alla rivista Tuttobici, raccontando "un campione e un uomo col quale mi trovavo bene", una conoscenza iniziata durante le gare di coppa del Mondo sulla neve, gli incontri in circostanze felici o meno ("Andai a trovarlo in ospedale a Torino quando ebbe quello spaventoso incidente dal quale seppe poi ripartire"), gli scambi di cortesie ("Mi presentai al Giro e mi regalò una maglia, venne a Campiglio e gli diedi un cappello da sci"), ma soprattutto le difficoltà di una vita che avrebbe avuto il più drammatico degli epiloghi.
"La mia idea sulla vicenda Pantani si riassume in una parola: una tragedia - disse in quell’occasione Tomba -. I grandi campioni, o i personaggi famosi in genere, passano troppo facilmente dall'amore e dall’esaltazione all'odio. Questo mi pare che capiti con più frequenza proprio in Italia, dove spesso non c'è equilibrio nei giudizi sulle persone. Credo che Pantani si sia trovato solo nel momento in cui aveva più bisogno. Io e Marco ne abbiamo parlato molte volte: in carriera io sono stato stressato a mille per tante cose, la stessa cosa è successa a lui. Forse era più debole di me e si è lasciato andare. Si è quasi allontanato dalla gente invece di cercarla. Capita quando sei circondato da chi ti è amico soprattutto quando vinci: di quelli che gli sono stati accanto fin da quando non era Pantani mi pare ne fossero rimasti pochi. Come ricordarlo? Come un grande fuoriclasse. Un campione buono. Un ragazzo sensibile. Sfortunato: a lui è andato davvero tutto storto". Messaggio che, anche dopo sedici anni, non ha certo perso il valore dell’attualità.