di Giovanni Panettiere
Strana sorte quella del latino sui banchi di scuola. Bistrattata in Italia, dove è germogliata e ha assunto nei secoli la forma classica grazie alle orazioni di Cicerone, alla morale di Seneca e alla storiografia di Tacito (l’autore più temuto dagli studenti nei D-day delle versioni in classe), ora la lingua dei nostri avi viene rilanciata Oltremanica. Là, dove solo nel I secolo d.C. l’impero riuscì a fiaccare la strenue resistenza dei barbari britannici, il latino sarà insegnato nelle scuole pubbliche ai ragazzini dagli undici ai sedici anni. Da noi, invece, dal 1978 è uscito dai programmi delle medie e alle superiori lo studiano appena 4 alunni su dieci. "Per dare uno schiaffo a noi italiani sulla nostra lingua madre ci voleva il Regno Unito che solo qualche settimana fa ha chiuso diversi dipartimenti umanistici, accusandoli di razzismo – promuove Londra il professore Ivano Dionigi, tra i più insigni latinisti al mondo, ex rettore dell’Alma Mater di Bologna –. Ben venga l’insegnamento del latino in larga scala, è tempo di uscire dalla dimensione elitaria in cui sono stati rinchiusi gli studi classici".
Nemo propheta in patria, si potrebbe obiettare... Aforismi a parte, perché in Italia il latino è finito ai margini?
"Le cause sono duplici: paghiamo lo scotto del feticcio tecnologico, che ci fa considerare inutili le lingue del passato; si continua a pensare al latino e al greco come discipline conservatrici. Fino a quindici anni fa ancora teneva banco la perversione culturale per la quale sembrava che l’inglese e l’informatica fossero di sinistra e la lingua di Virgilio di destra. Una stupidaggine ideologica dovuta alla strumentalizzazione che del latino ne fece il fascismo".
Ma davvero è una lingua morta?
"Certo e per fortuna che lo è, perché, come sosteneva Thomas Eliot, “possiamo spartircene l’eredità“. A partire da quella linguistica visto che, anche se non lo sappiamo, parliamo italiano, ma scriviamo in latino. È da lì che discendono termini di uso quotidiano, da bonus a curriculum, dall’attualissimo virus a placebo, solo per fare qualche esempio più immediato".
Sta di fatto che l’insegnamento del latino alle superiori è sempre più annacquato. Persino nelle austere aule dei licei classici le lezioni spesso vengono impartite in inglese.
"Resto convinto che ogni mezzo sia valido per raggiungere un fine, in questo caso l’apprendimento di una lingua. Tuttavia, quando si scade nel gioco come quello di chi organizza cene in latino, allora siamo fuori strada. Gli studi classici hanno bisogno di avvocati autentici, non di facciata".
Londra promuove il latino per superarne la dimensione elitaria. Lo spirito è quello giusto?
"Ricordo che nel 1978, in occasione dell’abolizione dell’insegnamento del latino alle medie, il leader socialista Pietro Nenni se ne rallegrò, sostenendo che quella fosse la lingua dell’élite. Sicuramente in passato ha rappresentato uno status symbol, ma io credo che vada insegnato a tutti, ai figli dei liberi professionisti come a quelli degli operai".
Che cosa ne ricaverebbero?
"Si ritroverebbero di nuovo attaccati alla spina del tempo. Oggi, complici i social, domina lo spazio, siamo immersi in un eterno presente. Il latino ha il suo perno nel verbo e nella consecutio temporum, ci riallaccia al trapassato e ci spalanca il futuro. Torna a darci una memoria e una prospettiva di cui sentiamo la mancanza".
Tanti genitori non fanno studiare il latino ai figli, perché ritengono non prepari al mondo del lavoro.
"La scuola non serve a trovare un mestiere. Quando un ragazzo esce dalle superiori, quel lavoro non c’è più. Si va in classe per imparare ad imparare e per conoscere la lingua, la storia e la cultura. Il latino è una chiave che apre la porta della lingua e del tempio del tempo".