Le ’grandi storie d’amore’ talvolta finiscono male. E quella del ’Che Guevara’ di Roma nord, al secolo Alessandro Di Battista, 42 anni, è una storia d’amore con il Movimento 5 stelle che si è infranta ieri sull’altare della piattaforma simbolo di questo sentimento per la democrazia diretta, tanto cara un tempo al grillino scapigliato.
Dibba oggi se ne va, portandosi dietro almeno una quarantina di parlamentari. Quel voto che ha dato il via libera all’appoggio 5 Stelle al governo Draghi gli ha lacerato il cuore: "La mia coscienza politica non ce la fa a digerirle, d’ora in poi non parlerò più a nome del M5s, perché in questo momento il M5s non parla a nome mio. E dunque non posso fare altro che farmi da parte". "Questa scelta politica – ha proseguito – di sedersi con determinati personaggi, in particolare con Forza Italia, con un governo nato essenzialmente per sistematizzare il M5s e buttare giù un presidente perbene come Conte... questa cosa non riesco proprio a superarla. D’ora in poi non posso far altro che parlare a nome mio e farmi da parte. Se poi un domani la mia strada dovesse incrociarsi di nuovo con quella del M5s, vedremo: dipenderà esclusivamente da idee politiche, atteggiamenti e prese di posizione". Quindi, l’addio: "Ringrazio Beppe Grillo e tutti gli attivisti, è stata una bellissima storia d’amore, con tante gioie e anche qualche delusione. Ma così non posso andare contro la mia coscienza".
Dibba se ne va, allora. L’uomo che ha incarnato, più di ogni altro, l’anima barricadera, rivoluzionaria e arrabbiata del M5s, l’uomo giusto per arruffare il popolo, ma non per le scrivanie dei ministeri, lascia senza sbattere la porta davanti a un Movimento che ha fatto mille giri su se stesso e che adesso non lo riconosce, così come Dibba ne rifiuta la trasformazione.
E dire che solo pochi anni fa,di Di Battista si diceva avrebbe scalato agevolmente la leadership dei 5 Stelle, casomai aiutato dal suo ’gemello diverso’, Luigi Di Maio, quasi due fratelli a verderli parlarsi dal vivo eppure così diversi, ma complementari. Era il tempo a cui a Dibba bastava apparire da uno schermo su un palco, in qualche manifestazione, per aggregare un popolo al gido di "onestà,onestà". Un grido a cui – almeno lui – sembrava credere veramente, fin dai tempi della fondazione del partito e fino a quando, nel 2013, è stato eletto parlamentare. Grillo ha sempre parlato di lui chiamandolo "il mio ragazzo" e riconoscendogli così doti diverse dagli altri, degne di essere coltivate. Eccolo,infatti, tra il 2014 e il 2017 dentro il primo direttorio grillino, formato da 5 persone a cui era stata affidata la guida del M5S, prima che si decidesse di eleggere un unico capo politico (guarda un po’, il ’gemello diverso’ Di Maio; solo dopo arriverà Vito Crimi). Sempre nel nome dell’integrità, del rigore e della coerenza delle idee, al nuovo giro elettorale del 2018 Dibba non si è candidato per il Parlamento. Nella convinzione – non solo sua – di dover raccogliere la staffetta da Luigi Di Maio, una volta che questo avesse completato il secondo e ultimo mandato da parlamentare, secondo il Talmud grillino che ne vieta il terzo. E, invece, proprio mentre lui non c’era, proprio mentre lui era ritornato sulle ’strade del mondo’ a girare reportage rincorrendo l’epica dei cronisti di strada (dall’America del Sud lanciò un dispaccio: "Se mi avessero fatto la radiografia al cuore, avrebbero trovato le coronarie a forma di Patagonia") ecco che dentro i Palazzi il Movimento cambiava pelle, lasciandolo a sognare sulle strade scoscese di San Francisco o in India. O in Belize e il Guatemala, dove ha trascinato con sè la giovane compagna, Sarah Lahouasnia e al loro figlio Andrea (che all’epoca aveva solo 8 mesi, mentre oggi è arrivato anche Filippo).
Quando è tornato dal suo ultimo reportage, Dibba si è accorto subito che qualcosa non era più in sintonia con lui dentro il Movimento. Ha fatto finta di non accorgersene, ma poi ha cominciato prima a criticare le decisioni dei leader, a partire prima dalla decisione di allearsi con la Lega, poi con il Pd per poi decidere di armare la fronda, portandosi dietro quelli che, come lui, sentivano sulla pelle le bruciature del tradimento, di quel sogno che Grillo chiamava, agli esordi, "la rivoluzione senza sedi, senza soldi, senza tesori". Un sogno che si è infranto per sempre sun nome di Mario Draghi.
Elena G. Polidori