Sarà una traversata nel deserto, per le imprese italiane. "Difficile immaginare una ripresa rapida, alcune categorie – soprattutto nei servizi e tra le aziende che già prima faticavano – sono state dimenticate e non hanno ricevuto alcun aiuto, e potrebbero non riuscire a rialzarsi". Lo storico Giuseppe Berta, docente alla Bocconi, parte dal numero scritto in rosso dall’Istat, quel -12,4% che certifica il crollo del Pil tra aprile e giugno, trimestre segnato dal lockdown.
Professor Berta, quanto lenta pensa sarà questa risalita?
"Non prevediamo alcuna ripresa ’a V’: perdurando la situazione di incertezza del Coronavirus, è dura pensare che nel III trimestre si possa avere un rimbalzo decisivo".
Il periodo di lockdown sta chiedendo il conto. Si poteva agire diversamente per non deprimere così la nostra economia?
"Col senno di poi, si potevano differenziare di più le regioni: siamo partiti tardi a bloccare i focolai al Nord, mentre abbiamo congelato alcuni territori al Centro e al Sud poco colpiti dal virus. Ma non era una valutazione facile, questo va detto".
Cosa dobbiamo aspettarci in autunno? Molte attività potrebbero gettare la spugna?
"L’Italia scontava un ritardo di crescita già prima della pandemia. Il tessuto di imprese nostrano è variegato. Diciamo che ci sono un quarto di aziende ‘gazzelle’, internazionalizzate e tecnologicamente avanzate che si rialzeranno, mentre tante altre che si reggevano su un mercato interno asfittico, sono in grossa difficoltà. Per quelle più arretrate il rischio è la chiusura".
Il governo ha sottovalutato gli effetti del lockdown?
"Sì, c’è stata una disparità di trattamento tra le categorie. Alcuni mestieri tradizionali sono stati sorretti. Penso al mio barbiere, senza dipendenti e con la proprietà del negozio: per lo stop di 10-12 settimane ha avuto contributi sufficienti per andare avanti. Nella stessa strada, per dire, ci sono tante altre attività che non hanno ricevuto nulla, magari giovani che avevano aperto un locale, assumendo dipendenti. Ci sono stati ritardi nell’erogazione degli aiuti e molte difficoltà".
Come si esce da questa situazione?
"Va ripensato il modello economico. Veniamo da una fase lunga di globalizzazione e, in questa Europa a trazione tedesca, siamo stati abituati a concentrare le attenzioni sull’export. Non possiamo continuare così. Dobbiamo sostenere il mercato interno – e intendo quello su scala europea, non solo italiana – , rilanciando i redditi e, con essi i consumi continentali".
I soldi del Recovery Fund non possono aiutare?
"Può servire, certo. Ma l’importante è che non si parli più di austerity e patti di stabilità. Indietro non si torna, oggi è un’altra epoca".