di Giovanni Rossi
Natale in carcere. Altro che braccialetto elettronico. La Corte di Bruxelles ascolta i legali di Eva Kaili e poi decide: la 44enne socialista greca, vicepresidente destituita del Parlamento europeo a causa del Qatargate, non può andare agli arresti domiciliari. La rete corruttiva scoperchiata dagli inquirenti dentro e fuori il Parlamento europeo, con azioni mirate a favore anche del Marocco e in misura minore della Mauritania, non consente scorciatoie. La protagonista dello scandalo deve restare altri 30 giorni nel penitenziario di Haren, alla periferia nord-orientale della capitale belga, dove si trova dal 9 dicembre: suo padre uscì dal garage di casa Kaili-Giorgi con 750mila euro circa di banconote di piccolo taglio portate nell’abitazione – secondo confessione ai pm – da Francesco Giorgi, il collaboratore parlamentare compagno della Kaili e padre della bimba di due anni nata dalla relazione.
La mozione degli affetti per riabbracciare la figlia a Natale forse commuove i giudici ma non li convince. Il penalista ateniese Michalis Dimitrakopoulos e il collega greco-belga André Rizopoulos, vere star della giornata, utilizzano ogni arma forense. Contro la proroga della carcerazione preventiva ora hanno solo una carta, che giocheranno. "Se entro 24 ore (ndr, oggi) viene proposto ricorso, l’interessato comparirà entro 15 giorni dinanzi alla Corte d’appello di Bruxelles". Insomma, salvo sorprese, l’eventuale nuovo verdetto slitterà a dopo Capodanno. "Nell’interesse delle indagini, al momento non verranno fornite ulteriori informazioni", tira dritto la procura, che nei suoi scarni comunicati fornisce solo le iniziali degli indagati, senza confermare quindi né i nomi né la nazionalità, anche se le cronache sono gonfie di dettagli.
"Mai viste responsabilità a questo livello delle violazioni dirette del segreto istruttorio". Gli avvocati della Kaili diffondono frasi teatrali: "Il destino della signora è nelle mani della giustizia belga", oppure "Kaili è innocente e non è mai stata corrotta, mai!". L’offensiva apre forse scenari di legittimo dubbio sulle responsabilità dell’ex star della tv greca ora passata dal lato scomodo della cronaca. Ma i magistrati, prima di mollare la presa, vogliono trovare riscontri oggettivi alla ricostruzione offerta da Giorgi, che tenta di accreditare un’esclusività di azione, in ambito familiare, nella rete corruttiva gestita assieme all’ex parlamentare socialista Antonio Panzeri (sempre agli arresti). Secondo l’interrogatorio di martedì, durato cinque ore, Kaili avrebbe ammesso di essere stata informata dell’esistenza del denaro nel garage di casa solo allo scoppio del Qatargate. Di qui il tentativo di suo padre, arrestato in flagranza di reato e poi rilasciato, di fuggire col malloppo. E altri 150mila euro sono usciti fuori dalla perquisizione in Rue di Wirz. Nessuno scivolone di Kaili, secondo Dimitrakopoulos, perché, una volta a conoscenza del caso, aveva solo due possibilità: "Una era consegnare il partner alla polizia, l’altra andare dal proprietario del denaro" (ndr, Panzeri?) visto che "ai sensi del diritto europeo non c’è l’obbligo di denunciare il proprio consorte". La rampante vicepresidente "si fidava" del compagno e "lui l’ha tradita", è la sintesi dei difensori, in teoria utile a tutti. Ma non in pratica.
Il problema accessorio degli indagati è che l’inchiesta belga sta producendo atti amministrativi e giudiziari a cascata in tutti i paesi di origine. Notizia di ieri è il sequestro di un terreno di 7 ettari nell’isola di Paros. Secondo l’autorità antiriciclaggio ellenica, la proprietà acquistata da Kaili e Giorgi su quello spettacolare spicchio cicladico potrebbe infatti integrare i reati di riciclaggio e corruzione passiva. E ora che il mare è in tempesta, affiorano altri dettagli spiacevoli. Ieri su Mediaset una nuova denuncia: Kaili sarebbe "andata negli Stati Uniti per due volte coi soldi del Centro di uguaglianza di genere di Atene, finanziato dall’Eurocamera, per scopi personali", garantisce Sofia Mandilara, sua assistente tra il 2013 e il 2014. Ma il Qatargate è affare molto più scottante di eventuali vacanze ’premium’ scroccate ai contribuenti.