di Alberto
Melloni
L’incoronazione di Carlo III ha messo in mostra l’ecumenismo e il pluralismo religioso di cui il re vuole essere emblema. Il suo è un regno confessionale (se il principe di Galles diventasse cattolico non potrebbe regnare) in cui il sovrano è dai tempi di Enrico VIII ’governatore supremo’ della comunione anglicana. Ma nel grande spettacolo egli e l’arcivescovo Justin Welby hanno voluto che il rito dicesse altro.
A leggere dall’ambone è salito il premier inglese, anche se Rishi Sunak è induista; è venuto al re l’omaggio delle autorità non cristiane e il cardinal Parolin ha portato da Roma in dono una reliquia (niente di più cattolico...). Carlo III ha ricevuto sia la benedizione del cardinal Nichols (per la prima volta dopo 500 anni un arcivescovo cattolico di Londra è stato presente al rito) accanto a quella dell’arcivescovo celebrante Welby. Carlo ha così sanato una esclusione di cui si lamentava nel 1952 Romano Guardini (il teologo che ha più ispirato papa Francesco) che davanti al rito che fece regina Elisabetta II rimase incantato dalla solennità ieratica alla quale "nessun autoconforto democratico può mettere rimedio" e deplorò l’esclusione dei cattolici.
La presenza dei ’papisti’ alla incoronazione è infatti il meno pittoresco, ma il più importante dei segni di ieri. Si ricordi infatti che la guerra fra cattolici e anglicani ha lasciato una scia di sangue che nell’Ulster s’è chiusa solo nel 1998 e che Tony Blair dovette attendere di non essere più premier per diventare cattolico. E si ricordi anche che il cardinale Ratzinger bocciò nel 1981 l’accordo che avrebbe riunificato le due chiese, perché non accettava di considerare quella anglicana come una “tradizione”, e non si dimentichi che da papa aveva abrogato per loro la legge sul celibato ecclesiastico solo per quei preti anglicani contrari alle donne vescovo e alla ordinazione di omosessuali che tornavano a Roma. Il cerimoniale del re ha così provato a far transitare la corona da un passato confessionale (potenzialmente repressivo) e coloniale (nel quale tante fedi erano accomunate dalla sudditanza), ad un presente ecumenico e plurale che sacralizza la diversità religiosa e si re-sacralizza attraverso di essa.
D’altronde l’incoronazione è stata ritenuta per secoli, sia in Oriente sia in Occidente, un sacramento. Il sovrano (non a caso chiamato ’vostra cristianità’) rivestiva una funzione legittimata dal giuramento. I simboli con cui il re veniva rivestito, invisibili ai mortali, erano gli stessi della rappresentazione del Cristo vincitore. Gli imperatori cristiani erano modelli e hanno continuato ad esserlo se Mussolini ha un ritratto costantiniano nella chiesa italiana di Montreal e Vladimir Putin giurò su tre gradini bianchi, come Costantino nelle icone.
Se alle democrazie (grazie a Dio) basta il ripudio delle coreografie di bambini festanti e di giovani allineati che erano e sono il segno delle dittature, ad una monarchia alla quale il parlamento ha strappato tutti i denti politici serve altro per conservare quell’aura che seduceva perfino Guardini.
Carlo III l’ha capito e s’è presentato come zelante dell’unità della chiesa e del pluralismo costitutivo dell’esperienza religiosa. Siamo mille gradini sotto la ’Fratelli tutti’ di papa Francesco, ma mille gradini sopra le pulsioni dell’antisemitismo e dell’islamofobia che corrono per l’Occidente. God save the King!