Totò Schillaci era l’incarnazione di un sogno in quell’estate del 1990. Soprattutto se eri un bambino alla prima linea d’ombra della propria vita, l’esame di quinta elementare. Con un’estate e le notti magiche tutte da vivere.
Totò Schillaci era magnificamente imperfetto. Non era altissimo per fare il centravanti (così come era richiesto all’epoca): appena 173 centimetri. Aveva una fame di gloria che sorprendeva sin dallo sguardo. Quell’aggettivo spiritati associato ai suoi occhi. Sì, Totò aveva gli occhi spiritati perché vedeva da qualsiasi occasione l’opportunità di fare gol. Opportunisti li chiamavano i centravanti come lui, facendo difetto però su un termine che sembra da sempre troppo negativo. Perché l’opportunista viene accompagnato spesso da un pensiero sinistro, dalla presunzione che possa cogliere la minima occasione per farla fruttare a proprio piacimento, a discapito degli altri o del prossimo. Ma perdendo di vista invece il significato più profondo e ampio della parola opportunità (da cui l’aggettivo deriva).
Quell’Italia lì che vedeva i mondiali del 1990 come una grande occasione (in futuro avremmo scoperto che ci furono anche grandi sprechi, ma questo è un altro capitolo della storia), era l’ultima Italia felice. In cui l’opportunità andava colta per crescere, affermarsi. Gli occhi spiritati di Totò Schillaci che bucano la telecamera e che arrivano diritti nelle case degli italiani sono lo specchio di un Paese che credeva che potesse esserci ancora un’ascesa, una crescita sociale, che si potessero abbattere i muri (quello di Berlino era caduto soltanto un anno prima), che anche un ragazzo del Sud (cui le Curve avversarie non risparmiavano cori talvolta beceri, sui cerchioni delle auto di Palermo che sparivano) potesse salire alla ribalta e diventare la materializzazione di quel sogno – anche e soprattutto per i bambini e i ragazzini di quell’epoca – che non era solo fare il calciatore. Ma l’affermarsi in quello che si credeva potesse diventare il lavoro della propria vita.
Schillaci sapeva fare il calciatore, sapeva soprattutto fare l’attaccante. E non ha mai smesso d’inseguire il sogno, anche quando da ragazzino lasciò Palermo per andare a Messina. La provincia, la provincia della Sicilia. Da lì ha inseguito il suo sogno a suon di gol. Fino a quello che sembrava impensabile. Possibile passare nel giro di un anno appena dalla serie B a essere il centravanti titolare della nazionale italiana nei mondiali che si giocano in casa, a Roma? Possibile, ha salito per gradi la scala a pioli che l’ha portato nell’Olimpo. Quegli occhi spiritati erano un alternarsi di emozioni: la rabbia, la speranza, la determinazione, la cattiveria sportiva. Il non guardarsi indietro, ma la consapevolezza di sapere da dove si arriva e di quelle che sono le proprie radici, legate alla terra e agli affetti. Il gol alla prima partita dei mondiali del 1990 è andare incontro al proprio destino e prenderselo.
Andrea Carnevale ha appena mandato a quel paese il commissario tecnico Azeglio Vicini che l’ha sostituito. Entra Schillaci: un pallone piomba a centro area, in mezzo ci sono i due difensori centrali avversari, possenti (più dotati fisicamente di Totò), c’è solo uno spazio da cogliere. È l’attimo fuggente. È il carpe diem che Schillaci, 173 centimetri d’altezza, coglie andando a colpire di testa quel pallone, tra i due marcantoni, e lo spedisce dove il portiere non può arrivare. Gli occhi spiritati del prima e del dopo. La certezza di uno che non si fermerà lì. E così sarà per tutto quel mondiale. Non sono solo gli occhi della tigre (quelli evocati da Rocky), sono gli occhi di uno che sa di avere una sola opportunità e che quella opportunità non la può perdere, se vuole realizzare il suo sogno. Un sogno che tiene dentro tutto: il riscatto sociale, la ribalta, la gloria. Sì, Totò Schillaci era l’incarnazione di un sogno. In un’Italia che così allegra, come in quella estate (mentre si disfaceva il vecchio mondo), non lo sarebbe mai stata più.