di Antonella Coppari
In politica capita di rado che un leader riveli apertamente la propria paura. È un segno di debolezza sempre pericoloso. Se il segretario del Pd contravviene a questa regola ferrea, è segno che al Nazareno la preoccupazione supera i livelli di guardia. "La peggior legge elettorale che ha visto il nostro Paese potrebbe dare uno scenario da incubo – dice Enrico Letta ai suoi candidati – con il 43% dei voti la destra potrebbe arrivare al 70% dei seggi in Parlamento. C’è il rischio che venga stravolta la Costituzione, un rischio democratico che il nostro paese non ha mai vissuto". Così, esorta gli aspiranti parlamentari: fate tutto il possibile. "Un 4% a Conte o a Calenda non cambia nulla: viceversa, un 4% in più a noi, consentirebbe di tenere la destra sotto il 55%". Parole che irritano i diretti interessati: "Quindi hai già perso? Bloccheremo noi la destra", insorge Calenda. "Enrico fa campagna per gli avversari", chiosa Renzi. E Conte rincara: "È arrogante. Vuole fare di noi un capro espiatorio". Se la ride Giorgia Meloni: "Letta ha ragione. Non a caso il Rosatellum è stato scritto e imposto dal Pd, con il voto contrario di FdI". Salvini s’inalbera: "Il popolo è sovrano".
La paura nel Pd c’è ma anche il calcolo fa la sua parte: da quando è nato, il partito fa leva sul voto utile. Solo che ora l’arma rischia di essere spuntata: per motivare gli elettori la speranza di vincere è fondamentale. Stavolta però non c’è, ancorché a piazza Santi Apostoli (dove ha battezzato ieri sera a Roma la campagna elettorale) Letta abbia urlato: "La rimonta inizia da qui". C’è il rischio che gli elettori non solo non si sentano spronati, ma si considerino ’in libertà’, con la possibilità cioè di decidere senza ricatti. Ovvio quindi che il leader Pd provi a inventarsi una variante sull’eterno tema dell’utilità del voto, non per vincere ma per evitare un’inondazione tale da permettere la modifica della Costituzione senza referendum: per questo servirebbe il 66% e anche di più. "Abbiamo 17 giorni per cambiare il corso della storia". Il timore è reale, perché i sondaggi – compresi quelli riservati – non si possono definire fausti. Per il Pd sarebbe fondamentale affermarsi come primo partito, obiettivo cui mira da sempre Letta. Così, non avrebbe difficoltà nell’attribuire la responsabilità della sconfitta a una legge elettorale assurda, e poco importa che a vararla sia stato il Pd stesso.
Altrettanto facile sarebbe accusare la destra di aver dato vita a una coalizione fittizia, senza un collante, con lo scopo di vincere le elezioni. Sul piano dell’immagine potrebbe spacciarsi per vincitore morale. In ogni caso, è fondamentale un risultato del partito molto superiore a quello del 2018: non due o tre punti ma uno scarto netto. Insomma, per rinsaldare la posizione del segretario il 24% è l’asticella più bassa. E poi, c’è la coalizione: l’obiettivo dichiarato era arrivare al 30% in modo da proporsi come vero e proprio polo, glissando sul fatto che l’alleanza con SI e Verdi era stata definita puramente elettorale.
Bene: nessuno di questi tre risultati sembra oggi a portata di mano. Gli strateghi del Nazareno continuano a puntare sull’affermazione come primo partito ma le rilevazioni impietose assegnano sempre la corona a Giorgia Meloni. Il voto per il Pd è al 21,4% – secondo la Swg – e sarebbe pur sempre un risultato molto migliore del 18,7% di quattro anni fa, però la nota dolente è che il trend è in calo. La coalizione è lontana pur se non lontanissima dal 30%, ma con un’incognita pesante: il partito di Di Maio. Se +Europa sta all’1,9%, SIVerdi al 4,2% invece Impegno civico poco sopra all’1%, confine fondamentale senza il quale quei voti e relativi seggi finiranno nel cestino della spazzatura. Hai voglia di puntare sulla paura del popolo di sinistra di un trionfo della destra: per togliere voti alla coalizione della Meloni nel proporzionale non serve mettere la crocetta sul simbolo del Pd, basta non votare per la destra. Le cose stanno diversamente nei collegi uninominali: lì salvo eccezioni solo il candidato del Pd può farcela.
La strategia di Letta è dunque giocarsi la partita nei collegi: "Ce ne sono 60 contendibili", avverte benché i pronostici non siano rosei, visto che un sondaggio attribuisce al partito solo 11 collegi certi alla Camera. Tant’è: lì bisogna concentrare tutte le energie, non tanto nella speranza di strappare numerosi collegi in più ma perché data l’impossibilità del voto disgiunto con il voto uninominale rimpinguerebbe automaticamente il conto sul proporzionale. Ma di nuovo il Nazareno si trova alle prese con il solito spettro: nei collegi in cui la sconfitta è considerata certa, sarà difficilissimo convincere gli elettori a non votare dove li porta cuore.