Ci sono figure che divengono, come si suol dire ‘icone’. Recentemente lo sono diventati Kobe Bryant e la figlia e il povero George Floyd. La parola, dal greco, e come si vede nella grande tradizione bizantina, indica la parola immagine, ma appunto una immagine piú significativa di altre, che comunica qualcosa di importante per la vita di chi osserva. Certo, nel linguaggio corrente, si usa in modo spesso semplicistico: icona pop, icona della moda, del calcio, per indicare figure divenute conosciutissime. Nell’icona, come dice bene il bellissimo libro 'Le porte regali' di quel genio ucciso dal regime comunista che fu Pavel Florenskij, si presenta qualcosa, si fa presente qualcosa che interpella il fondo delle nostre vite, le questioni ultime che ci agitano e ci animano.
Non a caso, la scrittura delle icone bizantine (si dice scrittura non pittura per indicare il livello di obbedienza e di imitazione) richiedeva da parte del monaco che ritraeva san Giorgio o San Nicola o la Madonna della tenerezza una disposizione ascetica, un allenamento spirituale speciali. Ora le 'icone' del nostro tempo non sono piú spesso i santi ma personaggi, come capì bene Andy Warhol, al secolo Warhola, non a caso di famiglia ucraina, che creò le icone di Marilyn e altre come icone della America anni ‘60.
Nadia Toffa è divenuta una icona popolare della nostra Italia, post-cristiana e però ancora spiritualmente vivace. E come tutte le icone porta in campo gli elementi che ci ricordano che la vita è un dramma meraviglioso. La sua giovinezza, la sua spigliatezza, il suo sorriso hanno assunto, alla luce della prova che ha attraversato, un valore per tutti. La luce del dolore, della fragilità accettata e vissuta senza rancore, hanno reso per così dire più belli, più forti quegli elementi che una fama televisiva aveva reso noti a tanti.
Richiamando, al di là del suo personale valore e personale dolore, una cosa che tocca la vita di tutti. La compresenza di bellezza e limite. La cantò in modo ineguagliato Giacomo Leopardi nelle memorabili A Silvia o Sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima. Lo struggimento per una strana ingiustizia del destino, a cui tutti noi anche per vicende personali o di persone vicine, ci tocca, ci interroga. Il Destino, questa parola spesso banalizzata o anestetizzata, torna a domandare, a bussare alla nostra porta anche attraverso questa ’icona’ nostrana, questa vicenda che – specie in un’epoca che usa la Salute come ideologia– non lascia tranquilli.
Che cosa è la vita in rapporto al Destino più grande di noi? In che rapporto ci dobbiamo porre con questo mistero che ci sovrasta e che sembra non distinguere tra belli e brutti, tra famosi e ignoti, fortunati e sfortunati? Forse la prima indicazione potente è proprio questa: se non ci fosse un mistero che tutti ci avvolge e riguarda allo stesso modo, l’unica maniera per leggere la vita sarebbe in quelle suddivisioni stupide, tra fortunati e sfortunati, tra belli e brutti secondo i cliché. Invece no, siamo tutte creature fragili e meravigliose e la vita di uno vale come quella dell’altro, quella del bambino malato che vive pochi mesi vale come quella del ricco magnate che invecchia gonfio di ricchezze.
La vita vale per il suo rapporto con il Destino non per le fortune che la visitano o no. Ognuno vale perché è, e il Destino resta il grande interrogativo. Ha un volto – come vede Dante al termine della Commedia – o è un Ignoto indistinto? Nadia ce lo chiede.